Va bene che per due gocce di pioggia cadute in testa ai manifestanti sarebbe pretestuoso prendersela col Comune o col governo: ma il traffico, almeno il traffico, non si poteva deviarlo su qualche altra strada? Andatelo a spiegare agli automobilisti ingabbiati per ore nel piccolo rettilineo che sbuca su piazza Roma. O alla vecchietta che era andata dal tabaccaio a comprare il biglietto dell’autobus – ma lei lo chiama ancora filobus – sperando di arrivare in tempo al mercato, come tutti gli altri giorni. O spiegatelo ancora agli autisti delle autolinee che collegano Catania con i paesi della provincia; che all’inizio del corteo hanno dovuto spegnere i motori e tirare il freno a mano, accostandosi a un marciapiede poco sopra la discesa che porta a piazza Stesicoro; e che a mezzogiorno suonato erano ancora lì, a piazza Stesicoro, a vedersi sfilare davanti una manifestazione allegra, variopinta e incasinata che non finiva più.
Dice: ma non potevano almeno deviare il traffico? Ma no che non potevano. Per il semplice fatto che la protesta, come continuano a sostenere a palazzo Chigi e dintorni, in realtà non esiste o non va oltre la montatura di pochi trinariciuti nostalgici e faziosi. Per il semplice fatto che il dissenso ai tagli della Gelmini, sempre beninteso secondo la versione ufficiale, è affare di una minoranza residuale, che si ostina a capovolgere la verità gonfiando le cifre dei cortei e trascinando le sue bandiere d’un rosso ormai slavato. Per la semplice e logica considerazione che non si può mica bloccare o deviare il traffico di una grande città per una cosa che quasi quasi non esiste. E infatti.
Vallo a sapere in quanti erano, ieri mattina per le strade di Catania. Difficile stabilirlo, a meno che non li abbia contati uno per uno quel povero autista intrappolato per qualche ora all’incrocio in un torpedone ormai vuoto di passeggeri. Difficile e tutto sommato inutile. Perché – fossero stati solo i 25 mila della prudente stima proveniente dalla Questura – per ripensare a così tanta gente in piazza in questa città ci vuole uno sforzo di memoria che molti dei manifestanti di ieri, per ovvie ragioni d’età, non potrebbero mai fare. Anticipare di un giorno la discussione in Senato per tagliare le gambe allo sciopero è stata un’operazione di bassa cucina: ma è servita davvero a poco. Chiunque ieri abbia fatto due passi per Catania ha avuto modo di accorgersene.
Erano in tanti per la strada e, se qualcuno pensa che fossero tutti lì per far vacanza, si può osservare che ieri, per saltare le lezioni, bastava e avanzava lo sciopero dei professori. Erano in tanti e non erano solo catanesi. Quanti erano quelli che avevano preso il treno da Giarre o da Acireale, e quelli arrivati in pullman da Caltagirone o da Ramacca? Questi ragazzi delle scuole di provincia hanno ieri sperimentato, sia pure per una sola volta e con il sorriso dei giorni di festa, un pezzetto della quotidiana fatica dell’insegnante medio. Si sono alzati la mattina presto, sono scivolati per più di un’ora su qualche ferrovia a binario unico o su qualche malandata strada provinciale, sono rimasti impegnati per tutta la mattinata a far qualcosa che considerano importante e sono poi ripartiti verso casa, ripassando per le stesse strade e per le stesse ferrovie. Proprio come fanno tantissimi dei loro professori – inutili capitoli di spesa per la Gelmini, fannulloni brunettiani per la vulgata corrente – che invecchiano così, nell’attesa di un altro giorno di pendolarismo, nella speranza di un altro anno di lavoro precario a chissà quanti chilometri da casa.
Sarà per questo senso di comune precarietà che studenti e professori ieri mattina, incontrandosi per caso al corteo, si salutavano come vecchi amici. Sarà perché queste due categorie, benché separate dall’anagrafe e dal registro, hanno comunque entrambe a che fare con il futuro, e sarà perché questo futuro mette paura molto più di un registro: fatto sta che in questi giorni – nelle scuole autogestite, cogestite o in ogni modo partecipi della protesta – ragazzi e professori si sono interrogati insieme con la stessa ansia, con la stessa precaria incertezza di chi non sa quali porte domani resteranno aperte. Anche per questo non era il caso, quando il corteo di studenti e di precari è arrivato a piazza Università, di chiudere il portone del Rettorato. Non c’era proprio bisogno di regalare un’altra metafora a un immaginario già intriso di timore. Non c’era bisogno davvero di rappresentare con tanta visiva efficacia, agli occhi di chi passava lì davanti, l’incerto domani che i tagli della Gelmini disegnano per i nostri Atenei. Una porta chiusa in faccia a quelli che oggi fanno vivere l’Università; e a quelli che, domani, dovrebbero avere il diritto di viverla.
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