Tra sperimentazione e riflussi: una storia già raccontata

Volendo ragionare per assunti assurdi, a guardare la storia del rock senza averne quella distanza storica indispensabile per rubricare opportunamente fatti artistici e fenomeni sociologici, si potrebbe affermare senza tema di smentita che già nei suoi primi dieci anni di vita il fenomeno rock, così come emergeva dal sottosuolo delle etichette giovani e più o meno indipendenti (dalla Sun Records di Sam Philips al crollo delle quote di mercato delle majors statunitensi, avvenuto tra il 1955 e il 1959, a favore delle sigle indipendenti che conquistarono in poco tempo una fetta di mercato superiore al 55%), conteneva già in nuce tutte le premesse dei successivi sviluppi, in forza non solo del tentativo di livellamento del gap presuntuosamente esistente tra “musica dei bianchi” e “musica dei neri”, della prepotenza delle innovazioni tecniche che aprivano la strada ad impensabili soluzioni stilistiche (già a partire dall’uso di due registratori per produrre quell’effetto di riverbero slapback che sarebbe diventato l’emblema del rockabilly), del rapporto che provava a rendersi più stretto tra repertori culti e repertori extraculti (in questo senso si muovevano gli artisti gravitanti intorno alla Columbia University dove, per la prima volta, Luening e Ussachevsky prima e Ligeti poi portavano la tape music e la texture music) ma anche per la sua capacità di diffondersi capillarmente da una sponda all’altra dell’Oceano e rappresentare il primo evento musicale autoctono dell’America postbellica.

A dar credito ad un’ipotesi del genere, se non il primissimo ska di Roscoe Gordon (1952), se non la prima canzone della storia del pop (Hard Times di Charles Brown), se non la nuova vocalità doo-wop dei Penguins (1954), se non le dirompenti performance di Jerry Lee Lewis, se non l’invenzione del rock latino di Valens e Romero, se non il bizzarro connubio tra voodoo e rock’n’roll che dava vita, con I put a spell on you (1956), al gothic-rock, se non il folk rock di Buddy Holly, se non l’unione di tutti questi rivoli in cui l’appena nato nuovo linguaggio si parcellizzava esprimendo le istanze di ogni singolo gruppo sociale che fino a quel momento non era riuscito ad identificarsi in toto in un genere musicale, basti il fatto che già tra il 1966 e il 1969 il rock’n’roll viveva il suo primo momento di revivial ma di un revivial che passava attraverso il blues nei confronti del quale il rock aveva ancora un sostanziale e visibilissimo debito filiale.

Secondo un procedimento analitico non dissimile da quello applicato poco sopra, non è difficile leggere l’esperienza di Dylan come una sorta di recupero delle radici storiche del rock e scoprire poi come la new wave dei secondi anni Settanta abbia come necessario effetto una ripresa del roots-rock.

In un panorama dunque che sembra liquidare con troppa fretta e con una pericolosa leggerezza punk e blank generation, progressive e dark, hardcore e psichedelica, noise e heavy-metal, glam e cantautorato d’impegno, è già a partire dagli ultimi anni Ottanta che il rocker, come figura della variegata società musicale, ha perduto quasi del tutto la sua valenza “di rottura” finendo col diventare il fossile di un obsoleto panorama musicale che di trasgressivo ha sempre meno. Il vuoto lasciato dal rocker non fa che innalzare, spesso a torto, la figura del dj a nuovo “vate”, all’interno di un panorama in cui la creatività si coniuga inutilmente  – e spesso sterilmente –  con dance e grunge.

A tenere alto il vessillo di una sorta di impegno che non ha mai rinunciato del tutto alla “contaminazione buona” dell’esotico come dell’ambient, della proposizione politica come della sperimentazione, sembra non restare che la protesta “plebea” o pseudo-tale di rap e hip-hop, mentre il baricentro della creatività prova a spostarsi tra Australia e Nuova Zelanda, tra Lo-fi pop e raffinatezze varie ora di matrice irlandese, ora variamente desunte da un comodo Minimalismo (e basti per tutti il nome dei Dead can Dance o l’ambient d’avanguardia di Paul Schutze che mette insieme Miles Davis e Brian Eno senza dimenticare la lezione di La Monte Young).

Redazione Step1

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