«Come facciamo oggi? È una domanda che non auguro a nessuno di sentirsi rivolgere». Giuseppe Musso, invece, deve farci i conti ormai da tre anni. Da quando ha smesso di ricevere lo stipendio. Palermitano di 46 anni, da 20 lavora all’Ipab Principe di Palagonia, vale a dire l’istituto pubblico di assistenza e beneficenza che opera sotto il controllo della Regione, con la compartecipazione del Comune, che garantisce la copertura finanziaria per chi non riesce a pagare in toto la retta. Nessuna gestione privata quindi, ma una gestione di persone giuridiche fatta da un consiglio di amministrazione composto da due membri del Comune, due della Regione e uno della prefettura, oppure da un commissario straordinario, mandato direttamente dalla Regione. «Noi dipendenti non prendiamo lo stipendio da 36 mesi – racconta Giuseppe a MeridioNews -, parliamo di famiglie per la maggior parte monoreddito, alcune anche con persone disabili al loro interno. Abbiamo un contratto di diritto pubblico a tempo indeterminato, siamo dipendenti pubblici a tutti gli effetti, status sancito anche dai numerosi ricorsi al Tar fatti in passato. E come tutti dobbiamo far fronte a mutui, affitti, bollette, spese».
Una situazione insostenibile già di per sé. Ma che oggi, in piena emergenza sanitaria, si aggrava ancora di più. «Già tre anni senza stipendio sono stati devastanti – spiega Giuseppe -, ma almeno abbiamo potuto portare qualcosa a casa arrangiandoci, facendo magari qualche servizio da cameriere nel weekend o un lavoretto da muratore grazie a un amico che ti chiama. Ma adesso non è più possibile neppure questo. Questa situazione ci ha completamente rasi al suolo sotto ogni punto di vista, da quello emotivo a quello morale». È una condizione, quella di Giuseppe e dei suoi colleghi, che si trascina da molto tempo, e che invece di risolversi negli anni non ha fatto che aggravarsi sempre di più. «Sono 20 anni che attendiamo la riforma dell’ente – spiega -. Tutti gli Ipab italiani si sono trasformati in Asp o addirittura in Rsa. La nostra Regione, però, ha deciso di fare diversamente, perché il nostro istituto ha un patrimonio immobiliare di 80milioni di euro, più un milione e duecento mila euro in titoli in banca e altre ulteriori proprietà». Un valore enorme, stando alle cifre, quello dell’Ipab Principe di Palagonia. «Una cifra che forse ha fatto dimenticare alla Regione il nostro vero fine istituzionale – torna a dire Giuseppe -. Fino a tre anni fa avevamo 70 ricoverati su 75 posti letto totali in struttura, un posto all’avanguardia, attrezzato di ogni dispositivo, avevamo persino una cucina nostra e un cuoco, e un magazzino pieno di derrate alimentari che acquistavamo direttamente dai grossisti».
Un’eccellenza, in tutti i sensi, «sembravamo quasi un albergo a cinque stelle». Ma come fa un fiore all’occhiello tanto efficiente e che ha sempre funzionato a ridursi a ciò che è oggi? «La nostra realtà è stata macchiata dalla politica. Se per assurdo ci fossimo costituiti in cooperativa convertendoci in privati avremmo potuto vivere soltanto delle rette degli anziani, parliamo di 70 posti letto riempiti a quasi mille euro ciascuno al mese. Vale a dire 70mila euro in un solo mese, con cui si possono pagare gli stipendi dei dipendenti e tutto ciò di cui ha bisogno una casa di riposo. Ogni consiglio di amministrazione e ogni commissario di turno – spiega Giuseppe – non ha fatto altro che distruggere il fine istituzionale per depauperare il nostro patrimonio». A fare dimenticare la funzione di un ente come l’Ipab, insomma, sarebbe stato proprio il valore di quell’eccellenza e dei suoi immobili, che avrebbero fatto gola a tanti. Come l’immobile che si trova alle spalle del centro commerciale Conca d’Oro.
«Lì esiste una struttura – racconta Giuseppe – che è nostra e vale 15milioni di euro, l’ha fatta costruire Zamparini perché il terreno su cui si erge il centro commerciale era di proprietà dell’ente, ma siccome tra pubblico e privato non possono avvenire compravendite in denaro, la giusta contro-prestazione è stata costruire una casa di riposo all’avanguardia con 120 posti letto, per la quale, messa a reddito, il parere di congruità prevedeva un introito annuale da 540milioni di euro, ma mi risulta che sia stata affittata per 400 euro al mese da alcuni politici. Qualcuno di loro avrebbe pensato bene di affittare in sordina appartamenti di proprietà dell’ente, dove il valore si aggirava intorno agli 800, 700, 600 euro a 100 euro al mese, addirittura qualche membro dei passati consigli di amministrazione che con la scusa di farli visionare se ne sarebbero addirittura appropriati. Solo che, anche se a fatica, noi siamo riusciti a farci ridare con forza ciò che era nostro. La politica è sempre venuta da noi per depredare, mai per costruire».
Oggi l’Ipab Palagonia è nelle mani di un commissario straordinario che viene nominato per la terza volta: è Saverino Richiusa, dirigente funzionale dell’assessorato alla Famiglia e agli enti locali. «È lui che si è opposto ai decreti ingiuntivi degli stipendi dei dipendenti – precisa con amarezza Giuseppe -. Noi ad oggi nella struttura non abbiamo più anziani, li abbiamo dovuti mandare via perché per mancanza di liquidità non abbiamo più potuto riparare la caldaia, rimanendo quindi senza riscaldamenti. Abbiamo gli estintori scaduti, non esiste un piano di sicurezza né uno di evacuazione, manchiamo dei minimi requisiti indispensabili per poter favorire un servizio alla persona. Questo ci comporta la caduta dell’accreditamento col Comune di Palermo. Però abbiamo un commissario che pensa di offrire i nostri locali all’emergenza dei senza tetto». Ma non parlavamo di un ente non più in grado, in queste condizioni, di erogare servizi per le persone? «Non è tutto – torna a dire Giuseppe -. Per via dell’emergenza Covid, molti di noi sono stati messi in smart working, quindi questo offrire i locali a chi non ha una dimora è stato fatto nel silenzio assoluto, senza sentire i sindacati, senza coinvolgere gli Rsu, senza effettuare alcun bando o una manifestazione d’interesse nemmeno per quegli otto dipendenti che sarebbero stati coinvolti in questa iniziativa per occuparsi della sorveglianza. Come fa a pagare lo stipendio a queste otto persone e a tutti gli altri no?».
È una delle tante, troppe domande ad oggi senza risposta che martella nella testa di Giuseppe. «Siamo all’assurdo. Ad oggi questi senza tetto sono andati via, ma stanno comunque mettendo a disposizione i locali per effetto di un provvedimento ministeriale per l’emergenza carceri – spiega ancora -: tutti quelli che hanno una pena da scontare inferiore o pari ad un anno la dovranno scontare in strutture assistite per questioni di sicurezza per via del Covid. Quindi a breve arriveranno queste persone. Mentre nessuno dei dipendenti intanto riceve lo stipendio, appunto, da 36 mesi. Questa gestione fa pensare che nessuno voglia risolvere nulla. Noi non vogliamo regalato niente, vogliamo solo il nostro posto di lavoro che c’è stato rubato dalla politica». L’unica responsabile di questa drammatica situazione sarebbe, secondo Giuseppe, la Regione. «È lei la responsabile del nostro fallimento economico e sociale, perché come organo di controllo aveva la responsabilità dei commissari che ha inviato – insiste -. Ci ritroviamo con un disavanzo di circa 4milioni di euro che è ormai incolmabile».
Tentano di coinvolgere anche il sindaco di Palermo, forti della legge 22/86 che decreta che il fallimento di un’opera pia tramite un’estinzione fa sì che patrimonio, debiti e dipendenti passerebbero al Comune di appartenenza. Ma dopo un’iniziale disponibilità, anche questa ipotesi sarebbe naufragata, con conseguenti ulteriori danni. «Noi siamo come una borsa da aprire, dei pubblici che continuano a sopravvivere solo per gli interessi privati di altri – dice -. Sembra quasi che ci sia qualcuno che si muove solo per favorire l’interesse, appunto, di privati che stanno fuori. Siamo stanchi di conoscere la verità e di non riuscire a farla emergere». Qualcuno dalla parte di questi dipendenti, però, c’è. Come la vice presidente dell’Ars Angela Foti, che da anni porta sui tavoli regionali la questione, corredata da ipotesi, suggerimenti, possibili soluzioni, piani di rilancio.
«Ma viene lasciata sbattere – dice senza troppi giri Giuseppe -. Perché se tu risolvi il problema degli Ipab e li fai vivere dignitosamente, non ci sarà motivo di farne politica, nominando i commissari, che sono posti di sottogoverno. Sono anni che noi non prendiamo lo stipendio ma assistiamo a commissari che si pagano il proprio compenso». Non sono mancate, tra l’altro, negli anni le denunce alle autorità, dai Ros alla guardia di finanza, «ma abbiamo ricevuto solo silenzio». «Secondo la banca dati noi risultiamo dipendenti pubblici, quindi non abbiamo nemmeno diritto a nessun sostegno al reddito. È grottesco, vista dal di fuori è una cosa che lascia alienati. C’è gente che tra sei mesi sarebbe dovuta andare in pensione ma che non potrà perché mancano i contributi. Si sono trovati soldi per i pip, per il reddito di cittadinanza, e persone che hanno sempre lavorato invece devono cercarsi i soldi per pagarsi lo psicologo – dice ancora -. Perché la nostra casa di riposo ha cessato di avere il suo fine istituzionale? Perché chi si rivolgeva a noi per il ricovero veniva dirottato in case di riposo private gestite dai parenti dei funzionari pubblici che, conoscendo il business, hanno mirato a far chiudere gli enti pubblici». Un’accusa molto dura, che Giuseppe e i colleghi hanno più volte denunciato.
Malgrado tutte le delusioni e quelle risposte e soluzioni che, ad oggi, non sono mai arrivate, lui in questa battaglia non vuole arretrare di un passo. «Perché devo essere io a rinunciare e non posso invece essere quello che può cambiare le cose? – si domanda oggi -. Io lotto per qualcosa che si tenta di rubarmi, perché dovrei desistere o fare altro o andare altrove? Se vedi qualcuno che ti mette le mani in tasca e ti porta via le tue cose tu rimani fermo senza dire niente? Perché devono essere i buoni a soccombere ai cattivi? Capisco che siamo la minoranza, ma verrà il giorno in cui qualcuno ci ascolterà. Se io oggi mi arrendo insegnerò solo questo a mia figlia. Non è retorica, è la vita di tutti i giorni».
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