Si sa, a pensar male si fa peccato, però qualche volta s’indovina (il copyright della frase è del senatore a vita Giulio Andreotti). Che dire, ad esempio, dei dirigenti del Pd che, da qualche settimana a questa parte, chiedono le dimissioni del presidente della Regione, Raffaele Lombardo?
Le ha chieste e le chiede il capogruppo del Pd, Antonello Cracolici. Le ha chieste Massimo D’Alema durante la sua visita palermitana. Richiesta ribadita ieri da Beppe Fioroni. Che succede? I dirigenti del Pd – a Roma come a Palermo – si sono improvvisamente accorti che Lombardo è inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato?
Queste accuse – piuttosto gravi – sono in piedi da tempo. E questo non ha impedito al Pd – a tutto il Pd, da Roma alla Sicilia – di rimanere nella giunta Lombardo. La dimostrazione che, in questo partito, l’antimafia funziona a corrente alternata: se l’antimafia serve per eliminare gli avversari politici, va bene: in questo caso si organizzano le ‘marce’ per la legalità, le manifestazioni, le richieste di dimissioni. Se, però, con l’assenza dell’antimafia il partito di guadagna – magari perché fa parte di un governo con il presidente inquisito per reati gravissimi – l’antimafia può tranquillamente andarsi a fare benedire e gli amici del Pd – da Roma fino alla Sicilia – si tengono le poltrone & il potere.
Sarebbe ingiusto, però, affermare che questo atteggiamento ambiguo è tipico del Pd. A smentirlo è il ‘Dna’ dello stesso Partito democratico. Giudizio troppo duro? Non esattamente. Gli uomini della ex Margherita – in pratica, gli ex democristiani – con la mafia hanno convissuto per tutti gli anni della cosiddetta Prima Repubblica. Quanto al vecchio Pci, si andava avanti con le contraddizioni.
Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso molti esponenti del Pci prendevano bonariamente in giro Pio La Torre. Dicevano che era “fissato” con la mafia (la frase testuale era la seguente: “Pio ha la fissa della mafia”). Mentre un altro nemico acerrimo della mafia, Girolamo Li Causi, esponente storico del Pci siciliano, nel 1958 veniva ‘democraticamente’ invitato a farsi da parte perché il Pci ‘trattava’ anche con i mafiosi per dare vita al secondo e al terzo governo regionale presieduto dal democristiano ‘ribelle’ Silvio Milazzo.
E non parliamo di quello che scrive nel libro “Mafia, politica e storia” Giuseppe Montalbano, altro prestigioso dirigente del Pci siciliano, che accusa senza mezzi termini il suo partito, all’indomani del secondo conflitto mondiale, di intrattenere rapporti con i mafiosi.
L’ambiguità ha accompagnato la storia di un ‘pezzo’ importante della sinistra siciliana dal secondo dopoguerra ai nostri giorni. A cominciare da quello che Pietro Zullino, nell’impareggiabile libro “Guida ai misteri e ai piaceri di Palermo” definisce “L’intrigo fondamentale”, ovvero il ‘caso’ del bandito Salvatore Giuliano.
Nella parabola del “Re di Montelepre”, che si concluderà il 5 luglio del 1950 con il suo assassinio ancora oggi pieno di ombre, ci sono passaggi che coinvolgono la sinistra. A cominciare dalla strage di Portella delle Ginestre, una “Strage per il centrismo”, con i dirigenti del Pci e del Psi che, la mattina dell’1 maggio del 1947, si guardarono bene dal recarsi a Portella, forse perché sapevano che sarebbe successo ‘qualcosa’.
I vecchi dirigenti del Pci e del Psi, quando si ricorda loro questo particolare – che secondo noi è centrale – si inalberano. Anche se ancora, a distanza di tanti anni, aspettiamo spiegazioni non soltanto su alcuni fatti avvenuti quella mattina, ma anche su altri fatti – non meno secondari – avvenuti negli anni successi. A cominciare dal ruolo e dai rapporti – mai del tutto chiariti – tra l’avvocato Antonino Varvaro (altro personaggio centrale di quegli anni bui) e il Pci (del quale Varvaro diventerà per lunghi anni dirigente e parlamentare regionale).
Le ambiguità e le contraddizioni continuano negli anni ’60 e, soprattutto, negli anni ’70 e nei primi anni ’80. Sono gli anni della ‘Solidarietà autonomista’ prima e dell’ambiguità strisciante dopo (gli anni di “Un’identità debole”, scriverà qualcuno) quando il Pci siciliano sceglie come interlocutore ‘privilegiato’, all’interno della Dc siciliana, un certo Salvo Lima. E dire che i “compagni” dell’epoca non avevano molte giustificazioni, perché nel 1976, anno in cui termina i lavori la prima commissione parlamentare nazionale d’inchiesta sulla mafia, Pio La Torre, nella relazione di minoranza, aveva descritto per filo e per segno non soltanto chi era Lima, ma tutto il suo sistema di potere. Ma tutto questo non impediva al Pci siciliano di quegli anni di ‘chiudere’ – al Comune di Palermo e a Sala d’Ercole – i ‘Patti di fine legislatura’ con Lima e compagni.
Diciamo questo per onestà di cronaca e di storia. Perché le ambiguità – e le cadute di stile politico e non soltanto politico – del Pd siciliano di oggi si inquadrano in un passato pieno di ombre, di ambiguità e anche di collusioni mai censurate. In fondo, le degenerazioni dell’Avviso 20 di Lombardo, Centorrino e Albert – l’incredibile spartizione di 286 milioni di euro per consentire ai partiti (con in testa il Pd) di ‘autoalmentarsi’ – erano già tutte nella gestione spartitoria delle leggi di spesa che, negli anni ’70 e nei primi anni ’80, venivano sancite nelle varie commissioni legislative dell’Ars, quando le stesse commissioni operavano investite impropriamente di poteri tipici dell’esecutivo. Era, questo, il nòcciolo duro del consociativismo, ‘arte’ che ancora oggi contraddistingue – e condiziona – la sinistra siciliana.
Tornando ai giorni nostri, va detto che la presenza del Pd siciliano nell’orbita di Lombardo – con tutti gli ‘annessi e connessi’ del caso, ‘catanesi’ ma non soltanto ‘catanesi’ – è la diretta conseguenza di un percorso politico di una certa sinistra siciliana contrassegnato da collusioni e ambiguità. Nella sinistra siciliana, quelli che si sono opposti, di fatto, a un’utilizzazione ambigua e strumentale della legalità e dell’antimafia, o sono stati ammazzati (vedi Pio La Torre, ma non solo lui), o sono stati messi da parte (vedi Girolamo Li Causi, ma non soltanto lui).
Gli attuali dirigenti del Pd, di provenienza comunista, che tengono il ‘filo’ con Lombardo sono in perfetta sintonia con la vera storia del loro partito in Sicilia. Per questo non ci sarebbe da stupirsi – al di là delle parole pronunciate dai vari Cracolici, D’Alema e Fioroni – se il Pd, superato lo ‘scoglio’ della commemorazione di Pio La Torre, il prossimo 30 aprile, decida di andare avanti con il governo Lombardo, fino al pronunciamento del Gup, previsto tra settembre e ottobre, magari ‘immaginando’ un finale ‘positivo’ per Lombardo (in materia di giustizia, dal Pci al Pd, spesso immaginazione e ‘determinismo’ coincidono…).
Se qualcuno pensa che dirigenti del Pd – da Roma alla Sicilia – non abbiano la ‘faccia’ per restare con Lombardo fino a ottobre, si sbagliano. Questa è gente che ha sostituito la morale con il cinismo. Sono capaci di tutto. In fondo, per il Pd siciliano l’unico “25 aprile” che hanno saputo immaginare è quello con la giunta Lombardo. Ovvero la gestione del potere allo stato puro. L’ambiguità è sempre stata la loro ‘Liberazione’…
Foto di Beppe Fioroni tratta da aghost.wordpress.com
Foto di prima pagina tratta da dazebaonews.it
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