«Hanno voluto salutarmi a modo loro, hanno cantato Hurricane di Bob Dylan. L’ultima parte l’hanno cantata abbracciandomi. Mi sono commosso come non mai». Totò Cuffaro ricorda con queste parole il momento di commiato con gli altri detenuti del carcere di Rebibbia, da dove l’ex governatore della Regione è uscito dopo quasi cinque anni. Cuffaro ha deciso di affidare a una lettera aperta il racconto delle emozioni provate nel ritrovare la libertà. Un testo dove trovano spazio retorica e note sentimentali, ma anche temi caldi come la questione delle carceri, la politica e i rapporti con l’Islam.
Nelle parole dell’ex politico dell’Udc non sono presenti tracce di rimorso né ammissioni di colpevolezza. Gli unici riferimenti alla colpa sono di natura ontologica, e fungono da contraltare per la misericordia: «La Misericordia è al di sopra di di ogni potere – scrive Cuffaro -. Nessun uomo è scevro dal commettere errori. Se esistesse un tale uomo avrebbe il diritto di pretendere dagli altri di non sbagliare, ma non può avere tale diritto perché non esiste». E se nessuno è perfetto, nella storia dell’ex politico ci sarebbe anche chi ha voluto vedere il male lì dove non c’era: «Pochi politici, rappresentanti pubblici e stampa mi hanno difeso – continua -. La gran parte, seppur credendo che io non abbia mai favorito la mafia, anzi la abbia avversata, non lo ha fatto. Ha avuto paura di essere additata». L’amore per la politica rimane immutato e anche se l’intenzione dichiarata è quella di rimanerne fuori, Cuffaro non lesina un commento sulla situazione attuale: «Ho già detto che non voglio dare giudizi – scrive -. Mi pare solo che si sta governando etiam periere ruinae (sono perite perfino le rovine, ndr). Questa non è la politica che conosco, la cattiveria è sempre più protagonista e c’è molta più ipocrisia».
Uno dei passaggi più intensi è riservato alla esperienza dietro le sbarre. Un luogo che segna e che l’ex governatore definisce «malvagio», ma non per l’umanità che lo popola: «Non è ciò che sta dentro che lo rende cattivo, è il carcere di per sé che è cattivo – puntualizza -. Dentro ci sono ladri, rapinatori, assassini, usurai, corrotti, mafiosi, trafficanti di uomini e di droghe, bancarottieri, ma sono sempre uomini. Il carcere invece è inumano». E ricorda come la condanna lo abbia privato della possibilità di vedere per un’ultima volta il padre morente: «Sono sicuro mi ha perdonato, l’amore di un padre perdona tutto. Sento il bisogno di tornare nella casa paterna, nella strada che mi vide bambino. Mia madre che non mi hanno fatto riabbracciare mi aspetta» si legge nella lettera. Poi, la promessa di non dimenticare: «Mi impegnerò perché possano migliorare le condizioni di vita dei detenuti, vivendo in cella ho imparato quanto sia importante non sentirsi esclusi e non essere dimenticati dalla società. Nella mia disgrazia – racconta – ho mantenuto la convinzione e la sensibilità che la purezza dell’anima si conquista non solo pensando ma anche operando nel bene».
Infine, un pensiero anche alla questione interculturale, che interessa a fondo anche le carceri italiane. Con tanto di appello a non confondere Islam e terrorismo: «È triste confondere i terroristi con gli islamici. Secondo il governo, le carceri sarebbero luoghi da tenere in particolare attenzione perché a rischio alto di proselitismo. Io ho pregato insieme col mio compagno di cella Jalal e guardavo i gabbiani, simboli di libertà, volare dentro le mura del carcere. Che invece, la libertà, la imprigiona».
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