«Si chiama permacultura, ed è un modo di progettare tutta la propria vita secondo i ritmi della natura. Per arrivare alla realizzazione di un ecosistema autosufficiente». Ha studiato come agronomo, ma in passato Toti Domina è stato tra i fondatori del centro di aggregazione Gapa a San Cristoforo, e persino candidato a sindaco di Catania. Da due anni ha però deciso di abbandonare la città, trasferendosi con moglie e tre figli in un appezzamento a 900 metri di altitudine sull’Etna: a Fornazzo, tra Milo e Sant’Alfio. «Abbiamo iniziato quattro anni fa a coltivare su questo terreno, con metodi di agricoltura naturale. Quando abbiamo deciso di trasferirci dalla città, ci sembrava assurdo costruire in cemento. Abbiamo valutato l’ipotesi di edificare in piatra lavica, ma aveva dei costi troppo elevati».
La Casa di paglia Felce rossa, dove oggi vivono e diffondono la permacultura con corsi ed eventi, è nata quando Toti e la moglie, Tiziana Cicero, hanno scoperto un metodo economico ed efficace per costruire: la paglia. «La struttura portante è in legno, ed è molto robusta, molto accogliente. La paglia non si vede, ma al posto dei mattoni abbiamo utilizzato circa cinquecento “balle”, larghe un metro, alte 40 centimetri e profonde 35. I materiali sono tutti locali», spiega Toti, che ai principi della bioarchitettura ha derogato solo su alcuni dettagli. «Ad esempio per verniciare le inferriate, usiamo una vernice acrilica. Stiamo cercando una soluzione naturale più duratura», prosegue Tiziana. All’interno, invece, tutto è all’insegna dell’autoproduzione: l’acqua viene raccolta dalla pioggia, il pavimento è in argilla, come l’intonaco, ricavato da una complessa lavorazione alla quale si aggiunge «anche il latte». Ma nulla, tranne due piccoli oblò dai quali si intravede la struttura sottostante, farebbe sospettare che si tratti, in realtà, di una casa di paglia.
«Nel mondo, soprattutto in America, ci sono moltissime case di paglia, che reggono da più di cento anni – precisa Tiziana – La nostra non è la prima in Italia, ma a quanto ne sappiamo è la prima del Meridione». Una circostanza, quella di essere quasi dei pionieri nel campo, che ha creato non pochi problemi. «Abbiamo fatto molti errori, e molte spese potevano essere evitate se avessimo avuto da subito un direttore dei lavori realmente esperto», racconta Toti. «A un certo punto ci siamo chiesti se ne valesse la pena», afferma la moglie. Guardando il risultato, dopo quasi due anni vissuti sul vulcano, il bilancio è però più che positivo. «Qui di inverno fa molto freddo, ma usiamo solo due ceste di legna per il riscaldamento – conclude Toti – E poi c’è il silenzio, e la vista sul cratere di sud est: passerei ore a guardare il vulcano».
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