La Procura di Agrigento cercava gli scafisti. E invece è venuto fuori l’inferno della Libia, condensato dentro le mura di una prigione sul mare, a Zawyia, un’ex base militare «su una spiaggia, vicino a una raffineria, con un grande portone blu e alte mura». E quel che è peggio, dove torturatori e assassini convivono con rappresentanti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni e con la polizia libica. La stessa a cui l’Italia ha affidato il compito, riempiendola di soldi, di non far partire i migranti.
Sono agghiaccianti le testimonianze raccolte dalla squadra mobile di Agrigento nell’indagine che ha portato al fermo di tre presunti torturatori, arrivati in due dei numerosi sbarchi fantasma, e che si trovavano nell’hotspot di Messina. Le loro foto segnaletiche sono state riconosciute da diverse vittime, sentite dalla polizia dopo il doppio sbarco del 5 e 7 luglio a Lampedusa.
Venduti dalla polizia a un’organizzazione guidata dal libico Ossama («il più spietato») che gestisce la prigione di Zawyia, torturati con tubi di gomma e scosse elettriche. Le donne violentate ripetutamente. Molti uccisi. I racconti dei sopravvissuti, secondo il giudice di Agrigento, convergono e rivelano ancora una volta quello che il dibattito politico in Italia si ostina non vedere.
«Sostanzialmente siamo stati venduti – racconta alla polizia un giovane del Camerun – Al nostro arrivo, all’interno di quel capannone c’erano tanti altri migranti, circa 20-30 persone, uomini e donne (“il teste visibilmente scosso inzia a piangere”, annota la polizia). Tutte le donne che erano con noi sono state sistematicamente e ripetutamente violentate dai due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Preciso che da quella struttura non si poteva uscire. Eravamo chiusi a chiave. Ci davano da bere acqua del mare e, ogni tanto, pane duro».
Lui, come altri migranti, riferiscono della presenza di un container dell’Oim e di persone con le casacche dell’organizzazione internazionale. «L’area si presentava divisa per settori: a destra vi era la direzione e a sinistra vi erano gli alloggi delle guardie. Entrando a sinistra vi era l’area delle donne, poi quella degli africani dell’est (Eritrea e Etiopia), e poi quella dei sub-sahariani. A destra vi era un campo di calcio dove vi erano tanti bambini, poi un container dei medici e infine un container dell’Oim. In quest’ultimo container vi era un libico, tale Mohamed, che aveva un barba lunga e vestiva in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tre barre. Aveva un aiutante, verosimilmente sudanese, che indossava la casacca dell’Oim che parlava inglese e arabo». Ma queste presenze non avrebbero impedito violenze. Tutt’altro. «Posso dire – continua il giovane – che a causa delle mie rimostranze contro la mia ingiusta detenzione, ho subito delle vere e proprie torture che mi hanno lasciato delle cicatrici sul corpo. Sono stato frustato tramite fili elettrici. Altre volte preso a bastonate, anche in testa. Un giorno – aggiunge – tre sudanesi, dopo essersi lamentati con l’Oim per l’operato delle guardie, sono stati ammazzati a botte da parte di Yassine, il sudanese. Io non ho assistito all’episodio, ma ho sentito per tutta la notte le grida di dolore dei tre migranti, sottoposti alle continue angherie da parte della guardie. Dopo quella occasione non ho avuto modo di vederli più».
Un altro connazionale mette a verbale: «Chi non pagava veniva torturato con la corrente elettrica. Ti davano delle scosse che ti facevano cadere a terra privo di sensi. Ho assistito personalmente a tanti omicidi avvenuti con la scossa elettrica. Sostanzialmente era una prigione della polizia libica. Malgrado c’erano funzionari dell’Oim, la stragrande maggioranza di noi migranti pativa la fame e la sete. Nessuno veniva curato e quindi lasciato morire in assenza di cure mediche. Personalmente ho assistito alla morte di tanti migranti non curati».
A portare i migranti nel lager è anche la polizia. «La sera del 4 luglio 2018 – racconta un giovane del Ghana – riuscivo ad imbarcarmi su una grande nave. Purtroppo venivamo subito intercettati dalla polizia libica che ci conduceva nuovamente a terra per poi imprigionarci a Zawyia, dove sono rimasto rinchiuso per tre mesi e due settimane». Analogo il racconto di un uomo, arrivato a Lampedusa insieme alla moglie. «Un giorno, nel mese di luglio 2018, io e mia moglie ci trovavamo a Zuara. In quell’occasione venivamo avvistati e avvicinati da due libici in uniforme, i quali ci hanno poi venduto al trafficante Ossama. Ho visto che uno dei due libici con il proprio cellulare ha contattato Ossama e ha pattuito con questo il nostro prezzo. Ad accordo concluso, i due libici ci hanno condotto direttamente nella prigione gestita da Ossama, a Zawyia, un’ex base militare. Noi migranti – continua – venivamo picchiati tramite un tubo di gomma che ci procurava tanto dolore e, alcune volte, anche delle ferite. Personalmente, all’interno di quel carcere, ho avuto modo di vedere che un migrante è deceduto a causa della fame. Era malnutrito e nessuno prestava a lui la necessaria assistenza. Ho visto che un carceriere, tale Mohammed l’egiziano, una volta, ha sparato e colpito alle gambe un nigeriano, colpevole di aver preso un pezzo di pane. Ho avuto modo di vedere che, tante volte, nel corso della giornata, le donne venivano prelevate dai carcerieri per essere violentate».
Un altro uomo, proveniente dal Senegal, affida alla polizia di Agrigento la disperata ricerca delle sue nipotine. «Con me all’interno di quel carcere c’era mia sorella di nome Nadege, che purtroppo è deceduta a causa di una malattia non curata. Mia sorella aveva al seguito le due figlie di 7 e 10 anni che sono ancora detenute lì dentro».
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