Termini, l’impossibile rinascita dell’ex Villaggio Himera «Funzionava in mano a mafia, perché non con lo Stato?»

Piscine, ristoranti, alberghi, locali, discoteche, boutique. È tutto questo il Villaggio Himera a Termini Imerese. O meglio, era. Aperto come villaggio turistico negli anni ’60, del suo sfarzo oggi resta ben poco, in parte sepolto sotto le mareggiate in parte depredato dai ladri che ne fanno continuamente razzia. Di quel paradiso in contrada Buonfornello, insomma, non rimane che un’insegna scolorita e qualche lontano ricordo. E la sua rinascita, a sentire il sindaco termitano Francesco Giunta, sembra impossibile. Il bene, infatti, confiscato nei primi anni Duemila, è passato poi nelle mani dell’amministrazione comunale. La società proprietaria del villaggio era la Eolie Yachting di Vincenzo Marcianò, costituita negli anni Ottanta per il noleggio di imbarcazioni e poi divenuta società edile con vocazione turistico-alberghiera dove sarebbero finiti i soldi delle famiglie mafiose di Boccadifalco e di Caccamo. Il decreto del 9 marzo 2015 di fatto rende demaniale quel paradiso turistico che si affaccia sul mare, da tempo a tutti gli effetti annesso al patrimonio del Comune di Termini. Che, però, non ha le risorse per rimettere la struttura in piedi e mantenerla.

«Le stime ammontano a circa tre milioni di euro, sono davvero troppi soldi – osserva Giunta -. La struttura di per sé non era ben architettata, questo ha comportato danni consistenti, a cui si aggiungono le mareggiate e anni e anni di abbandono. Neppure il ministero dell’Interno potrebbe improntare una simile somma». Il Comune non è in grado di mettere insieme le somme necessarie per restituire una seconda vita all’immobile, «dovrebbe essere un soggetto terzo che, attraverso un bando pubblico, dovrebbe prendersene cura». Accollandosi comunque una spesa iniziale considerevole, che potrebbe influire su più moderati canoni d’affitto – almeno all’inizio -, e i necessari fini sociali cui deve rispondere un’attività di lucro svolta in un bene confiscato alla mafia e che ritorna a nuova vita. Ma anche questa soluzione, di guardare alle proposte che vengono dal privato, fino ad ora non ha trovato concreta attuazione. E la palla da giocare rimane sempre, rigorosamente ferma, nelle mani del Comune. «Fino a qualche mese fa ho ripreso l’argomento con il prefetto, che aveva necessità di alloggiare gli immigrati, ma ne uscita fuori sol una polemica con FdI – racconta il sindaco -, è venuta anche l’onorevole Giorgia Meloni a visitare l’ex villaggio».

Una visita mossa dalla stessa indignazione che da anni attanaglia in una morsa cittadini e amministrazione, impotenti di fronte all’impossibilità di restituire questo luogo a Termini Imerese. La proposta lanciata nel 2017 da Fratelli d’Italia puntava, comunque, nella stessa direzione: mettere il bene a bando per gli operatori turistici, per trovare qualcuno che abbia le risorse necessarie per recuperarlo. «Abbiamo fatto alcuni incontri, anche con i nostri dirigenti, col segretario generale, con l’ufficio legale, non abbiamo avuto neppure i soldi per fare il bando, abbiamo difficoltà grandi di bilancio – spiega Giunta -. Non nascondo che non si è neppure esclusa l’ipotesi di restituire il bene all’agenzia del demanio, perché se non riusciamo a trovare qualcuno o il bando andasse deserto, diamo un messaggio sbagliatissimo». Mentre l’immobile continua a figurare nell’elenco dei beni confiscati e già destinati dell’Agenzia nazionale. Ma il rammarico più grande giunge dritto da quella che tra le constatazioni è quella che fa più male. «L’aspetto drammatico è che quando il villaggio lo gestiva la mafia funzionava, quando è passato nelle mani dello Stato no, è una sconfitta enorme».

I criminali hanno un fiuto per il business che forse un’amministrazione comunale non sa avere? O si riduce tutto sempre e soltanto a una banale questione di soldi? «Abbiamo enormi difficoltà, dal pagare le utenze a pagare i dipendenti, anche trovare e gestire appena mille euro, di questi tempi, per Termini è diventato complesso. Abbiamo approvato il bilancio solo il 27 dicembre – sottolinea il sindaco -, ma siamo in grado di gestire i beni confiscati che si trovano sul territorio». Senza contare che nell’ultimo elenco diffuso dall’Ansc solo quelli che si trovano nel Comune termitano sono circa un’ottantina. «Molti siamo stati in grado di riutilizzarli: l’ex dimora del boss Pippo Calò è stata data alla chiesa che ne ha fatto un oratorio. Altre le abbiamo affidate all’Opera Don Calabria, un’associazione no profit che si occupa del recupero di ex tossicodipendenti. Ma l’ex Villaggio Himera è un mostro con locali enormi, e noi un Comune poveretto. Qui serve qualcuno di grande disposto a investire… Sempre se esiste qualcuno disposto a farlo a Termini. Questo sistema fatto così serve solo a mettere un palazzo sulle spalle di una formica. Ma abbiamo il dovere di sottolineare che siamo più forti della gentaglia che in questo momento è in galera, che tuttavia sembra quasi uscirne ancora vincitrice».

Ma qualcuno interessato, forse, potrebbe esserci già. «Quel posto era di mio padre, diciamo che ipoteticamente mi alletta l’idea di tornarci, sarebbe una rivincita su tante cose». A parlare con un velo di nostalgia è Walter Ansorge, imprenditore termitano di origini tedesche che deve proprio ai suoi genitori l’esistenza di quello che era il Villaggio Himera, che lo vendono intorno agli anni ’80. «Non c’erano più le condizioni per andare avanti. Quindi lo abbiamo venduto, ma solo in seguito abbiamo saputo a che tipo di gente». Una svendita, anzi, perché all’epoca la struttura valeva circa tre miliardi, ma la famiglia ottiene solo 680 milioni di vecchie lire. «Oggi accarezzo ipoteticamente questa idea nella mia mente, in onore dei miei genitori che hanno speso 50 anni della loro vita quel posto – dice -. Ma l’onere è molto grosso, la struttura nasceva principalmente come campeggio, non offrirebbe quindi un tipo di vacanza dal target internazionale. E anche a immaginare di riempire tutte le piazzole, quanto potrebbero essere le entrate a dispetto di quanto occorre invece spendere per recuperarlo e poi mantenerlo?».

Una soluzione potrebbe essere, secondo l’imprenditore, quella di unire le forze: il privato fa la sua parte mettendo, ad esempio, un milione; il resto lo mette lo Stato, garantendo anche un affitto pari a zero calcolato in almeno vent’anni per permettere di recuperare le somme investite nell’impresa. «La soluzione può essere questa, devono dare dei soldi in qualche modo, una parte a fondo perduto, l’altra in maniera agevolata – suggerisce infatti -. Magari con la possibilità di creare posti di lavoro. Se metti un milione in dieci anni è un conto, se sono due o tre non conviene già più. Ci vuole insomma collaborazione a fronte di un rischio d’impresa di questo tipo. Un piano che permetta al privato a conti fatti, e non con le chiacchiere, di andare avanti una volta riaperta la struttura». Una soluzione che però, ad oggi, appare ancora piuttosto lontana. 

Silvia Buffa

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