Terence Davies in cattedra a Taormina

“Mi sento un outsider e quindi vicino a Lily”, con questa affermazione, ieri, Terence Davies si è presentato agli studenti, ai giornalisti e agli appassionati di cinema che, al Palacongressi di Taormina, avevano appena assistito alla proiezione del suo ultimo lavoro cinematografico The House of Mirth (2000), in attesa di assistere alla sua lezione.

Lily è la protagonista del film, basato sul romanzo omonimo della scrittrice americana Edith Wharton, che nella New York di inizio ‘900 si rifiuta di sottostare alle ipocrite regole dell’alta società finendo con l’esserne completamente esclusa e abbandonata. Così si sente il regista inglese che, fin dalla scoperta della sua omosessualità durante il periodo dell’adolescenza, ha dovuto sperimentare sulla sua persona la condizione di “diverso” e l’incomprensione della gente. “Lily – dice – scopre di avere integrità e non può cambiare se stessa: è vittima delle proprie regole e del terrore di infrangerle, quel terrore che anche io ho provato”. Con questo film, sicuramente diverso dalle sue opere precedenti (The Terence Davies Trilogy 1976-83, Voci lontane… sempre presenti 1988 e Il lungo giorno finisce 1992) che sono più esplicitamente autobiografiche, Davies ha voluto dipingere il degrado morale dell’aristocrazia americana all’interno della quale un personaggio non corruttibile non può sopravvivere; e non è difficile intravedere un parallelismo con il mondo odierno in cui denaro e apparenze continuano a farla da padroni.

Alla domanda sul rapporto fra cinema e letteratura e sui registi che considerano le opere letterarie un materiale impuro sul quale fare un film risponde: “Sono in completo disaccordo con loro. Non sono lavori meno puri, sono cinema!”. In questa risposta e in molte altre il cineasta inglese, che è una delle voci più autorevoli e personali del cinema britannico, mostra tutto il suo entusiasmo e la sua passione per il suo mestiere e per le arti in genere. “Quando scrivo un film, scrivo tutto: dialoghi, scene, musiche.. e quando faccio le mie scelte mi baso sul mio istinto. Quando sento di poter prendere una determinata decisione allora sarà quella giusta, non so come, so solo che è così”, ci dice, e continua con forza e convinzione: “I film sono fatti di istinto e passione: se questi due elementi non ci sono, perché andare al cinema?”.

A Olivia Stewart, moderatrice dell’incontro ma anche produttrice di The House of Mirth, che gli chiede come sceglie i suoi attori e come preferisce dirigerli, replica ancora una volta che è l’istinto a guidarlo: “può avvenire anche guardando semplicemente una foto”. Inoltre, è fondamentale per lui che gli attori sentano i personaggi e le loro parole: “quando recitano gli attori devono cogliere il senso e le sfumature, io non credo sia bene ‘sovradirigerli’: devono sentire ciò che dicono, altrimenti non funzionerà”.

Parlando dei dialoghi in The House of Mirth, in cui i personaggi dicono costantemente cose che non pensano e ciò che appare smentisce continuamente ciò che viene detto, il regista afferma che “non è importante non avere chiaro quel che viene detto, ma capire emozionalmente il contesto e le situazioni, percepire con le emozioni”. Perché per Davies le suggestioni e i significati impliciti dicono molto più delle parole pronunciate e gli permettono di “mostrare ciò che lo spettatore non si aspetta, l’inatteso”. Inoltre immagini, movimenti di macchina e musica vengono, nel suo processo creativo, prima dei dialoghi. E sulla musica del film aggiunge che “è lei a guidare i movimenti della macchina da presa e il ritmo delle parole stesse”.

Uno spettatore gli domanda se il suo modo di girare è influenzato dai film che vede: il regista gli rivela che è un processo naturale perché “inconsciamente li assorbi come un linguaggio”, ma allo stesso tempo torna a sottolineare il ruolo centrale del suo istinto spiegando che, per esempio, l’uso di piani-sequenza e dissolvenze incrociate che caratterizza la regia di The House of Mirth è stato un movimento di macchina istintivo e spontaneo.
“Quali film italiani conosce e ama del passato o del presente?”, vuole sapere un altro membro del pubblico e Davies dichiara che ama i neorealisti, i film di geni come Fellini o De Sica. “Ultimamente non vado molto al cinema – confessa – ma i loro film sono sempre belli e freschi nonostante gli anni”. E alla domanda “quali sono i film che gli danno ancora gioia” risponde ricordando il suo amore per i musical, specialmente quelli degli anni ’50. Più volte, durante la lezione, cita infatti Dancing in the rain, il musical che all’età di 7 anni gli ha fatto cominciare ad amare il cinema.

E il cinema, per Davies, è il cibo con cui nutre la sua anima senza il quale si sentirebbe spiritualmente morto. “Ha mai dubbi sul tuo mestiere?” gli chiedono; “– afferma – continuamente. E penso che molti altri registi siano migliori di me e mi dispero. Ma senza il cinema morirei. Metto tutto dentro il mio lavoro e se non potessi fare il regista diventerei inutile. Faccio tante cose – conclude – scrivo poesie, commedie per la radio, sto anche scrivendo un’autobiografia, ma la cosa che mi fa sentire veramente vivo è fare film”.

Titolo: La casa della gioia (The house of mirth)
Regia: Terence Davies
Soggetto: Edith Wharton
Sceneggiatura: Terence Davies
Fotografia: Remi Adefarasin
Montaggio: Michael Parker
Musica: Nigel Acott
Scenografia: Don Taylor
Costumi: Monica Howe
Interpreti: Gillian Anderson, Eric Stoltz, Dan Aykroyd, Laura Linney
Produzione: Olivia Stewart
Origine: Inghilterra, 2000
Durata: 135’

Agata Pasqualino

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