Prima di porre mano a un capolavoro assoluto del teatro qual è Sei personaggi in cerca d’autore, qualsiasi regista dotato di buon senso si metterebbe le mani nei capelli: per non sapere dove altro metterle. Se ritocchi troppo, ti tirano le pietre. Se ritocchi troppo poco, ti tirano le pietre. O, se sei (s)fortunato, ti tirano sbadigli. Ma a Michele Placido il buon senso non manca, e dopo essersi tirato i capelli per un po’ ha accettato, come una sfida, di dirigere l’opera pirandelliana con cui debutta la nuova stagione del Teatro Stabile di Catania, e che rimarrà in scena alla sala Verga fino al 29 ottobre.
Placido avrà cominciato tastando il terreno: un campo minato. Allora ha agito d’astuzia. Seduto davanti al testo di Pirandello come Penelope davanti alla tela, per ingannare noi proci, di notte sfaceva Pirandello, di giorno lo rifaceva. Di notte Pippo Pattavina (che avrebbe dovuto interpretare il ruolo del Padre) abbandona la produzione, terrorizzato dagli inserti dialettali di Placido come il diavolo dall’acqua santa; di giorno Placido (lui stesso ormai nel ruolo del Padre) rassicura i detrattori che di acqua santa ha asperso il copione giusto con un paio di gocce – per rendere il tutto più verace – e che di siciliano ci saranno solo gli attori. Di notte Placido vorrebbe attualizzare il testo, portandovi dentro le tematiche del giorno d’oggi con i termini del giorno d’oggi («femminicidio», «morti bianche», «violenza domestica»), ma di giorno il più che può fare è alludervi nelle parole del Direttore-capocomico (Silvio Laviano) che lamenta l’incapacità del teatro contemporaneo di raccontare la realtà. Problematica crisi del realismo.
Facendo e disfacendo, disfacendo e rifacendo, Michele Placido resta impigliato nella sua stessa tela: invischiato tra conservazione e innovazione, tra passato e presente. Un vero e proprio dramma. Ma per sua fortuna, un dramma andava messo in scena: e se il dramma di Pirandello era l’impossibilità di mettere in scena una vera tragedia, il dramma di Placido è l’impossibilità di mettere in scena Pirandello. Ecco che sul palco pare riversarsi il dramma tutto interiore (dramma edipico, dubbio amletico) del regista Placido, alle prese con la giganteggiante figura del padre della drammaturgia contemporanea.
Due sono i mondi che si scontrano nel capolavoro di Pirandello: attori e personaggi. Due sono i mondi che si scontrano nella messa in scena di Michele Placido: il presente e il passato, allineati su due distinti registri. Il presente è incarnato dagli attori della Compagnia: in abiti contemporanei (jeans, t-shirt, cellulari alla mano), immersi nella loro non-vita fatta di piccole scaramucce, di borghese grigiore quotidiano, incapaci di portare sulla scena i drammi della realtà – come dimostrano comicamente l’insensibile Primo attore (Luigi Tabita) e la Prima attrice (Egle Doria) alle prese con assurdi costumi di scena. A bucare tanto grigiore giunge quell’altro mondo, quello dei personaggi. Una realtà quasi mitica, separata dal qui e ora: i personaggi, fantasmi nella mente dell’autore, indossano le rituali vesti del lutto, parlano e si muovono grevi, circonfusi da un’aura spettrale – di luci e musica –, per mentalità e passionalità sembrano provenire da una Sicilia arcaica e remota, in cui ancora vive lo spirito greco della tragedia.
La tragedia di un Padre che si lambicca tra sofismi (un placido e lucido Placido), di una Madre contratta in un grumo di dolore (una tragicissima Guia Jelo), di una Figliastra arrabbiata e sensuale (l’esplosiva Dajana Roncione). Solo i personaggi, senza l’ingerenza degli attori, possono mettere in atto la propria tragedia. Loro che, pur morti, pur fantasia, sono più veri e più vivi dei vivi. Insomma, a furia di fare e disfare, Michele Placido ha ingarbugliato anche noi proci, ci ha invischiati nella sua tela, nel suo dramma. Ed è esattamente quello che qualsiasi regista dotato di buon senso dovrebbe fare.
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