Non solo pane, vino e olio. I Faraoni dell’antico Egitto mangiavano anche il formaggio, così come lo conosciamo noi. Proprio all’ombra delle piramidi sarebbe infatti stato rinvenuto, da un team di ricerca catanese-egiziano, il prodotto caseario solido più antico del mondo. Quel pezzetto di formaggio è stato probabilmente preparato per accompagnare nel suo viaggio dopo la morte Ptahmes, uno degli ufficiali Egizi più importanti durante i regni di Seti I e Ramses II e i resti biancastri sarebbero rimasti custoditi nella sua tomba a sud del Cairo per circa 3.200 anni.
Gli studi condotti da professori e ricercatori dell’università di Catania e della Cairo university, che dalla pianificazione alla pubblicazione sulla rivista Analytical chemistry sono durati circa un anno, rivelano importanti informazioni. «La certezza che si trattasse di un prodotto caseario, il profilo degli animali che hanno prodotto il latte (ovi-caprini e bovini) e, per la prima volta, un residuo proteico del batterio Brucella melitensis, causa della brucellosi», spiega Enrico Greco, attualmente ricercatore dell’università di Pechino e, fino a qualche mese, fa ricercatore del dipartimento di Scienze chimiche dell’università di Catania, con cui continua a collaborare.
Il gruppo di cui Greco fa parte ha utilizzato una tipologia di analisi innovativa nel settore dell’ArcheoFood: la proteomica, uno studio analitico di proteine su larga scala. «Abbiamo scelto un approccio diverso e innovativo – continua il chimico classe 1989 – cercando di studiare le proteine residue del formaggio». Non è stato infatti possibile svolgere l’identificazione attraverso metodologie classiche di tipo «gascromatografico – spiega Greco – a causa delle condizioni del campione che nel corso dei secoli ha subito una lunghissima serie di inondazioni ed essiccamenti e uno stress ambientale che ha trasformato i grassi presenti nel formaggio originale».
Dai dati emersi si può quindi stabilire che si trattava di un «formaggio a tutti gli effetti, nel senso moderno del termine – aggiunge lo studioso – quindi non semplicemente un latte fermentato (tipo yogurt o kefir, come riportato da altri studi di reperti più antichi in Nord Africa, Europa e Cina), ma un prodotto caseario che necessitava di una certa conoscenza dei processi e della tecnologia per realizzarlo». La ricerca ha impegnato «il professore Salvatore Foti che ha permesso l’accesso ad attrezzature innovative della la Bio-nanotech, research and innovation tower dell’università di Catania, il dottor Vincenzo Cunsolo, la dottoressa Rosaria Saletti e il professore Enrico Ciliberto che ha concepito il progetto e ne ha coordinato le diverse fasi. I nostri interlocutori egiziani – continua – sono stati Ola El-Alguizy, direttrice degli scavi della Cairo university, e a Mona Fouad Alì, direttrice del centro di conservazione della facoltà di Archeologia della stessa università».
La scoperta di campioni organici così antichi apre le porte a prospettive difficilmente prevedibili, ma «l’applicazione di tecniche analitiche su materiali provenienti da ritrovamenti archeologici porta una quantità enorme di informazioni in campi apparentemente molto lontani», secondo il ricercatore. Un esempio? Quello forense: «Trovare dei residui peptidici così persistenti in condizioni estreme, dopo migliaia di anni, può aprire le porte a nuovi protocolli di indagine legale». L’università di Catania intrattiene da tempo rapporti di collaborazione con l’Egitto, che rappresenta «uno dei suoi partner accademici più importanti nel mediterraneo – commenta Greco – In questo momento stiamo lavorando per consolidare i nostri rapporti attraverso un linguaggio, quello della scienza che, per sua natura, abbatte le barriere socio-culturali ed è per questo intrinsecamente portatore di pace».
Enrico Greco ha sempre studiato in Sicilia. Prima una triennale in Tecnologie per la conservazione dei beni culturali a Siracusa, poi la laurea magistrale in Chimica dei materiali nel capoluogo etneo e, infine, il dottorato di ricerca in Scienze chimiche con trasferte in Francia, Cina e Usa. «La Sicilia possiede un capitale umano di altissima qualità e le università siciliane forniscono una formazione che viene apprezzata e richiesta in tutto il mondo – ammette Greco – Tuttavia non riusciamo ancora a sfruttare questo potenziale nella nostra terra, dove siamo vittime di politiche nazionali di riduzione dei finanziamenti e mortificazione della ricerca. Negli ultimi 15 anni – continua lo studioso – abbiamo assistito a una progressiva riduzione non solo della spesa, ma anche del personale universitario a tutti i livelli, dai dottorandi ai docenti e questo non può che influire negativamente sui risultati. Ciononostante riusciamo ancora a produrre dei lavori di alta qualità e di forte impatto a livello internazionale».
Le indagini del gruppo di ricerca catanese non sembrano però concluse. «Stiamo attualmente studiando altri dati e informazioni da campioni dello stesso scavo – conclude Greco – e stiamo allargando la platea dei materiali da analizzare per poter diventare, nel tempo, un centro specializzato nello studio del cibo archeologico».
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