Si inizia la giornata con l’affollatissima masterclass, con la quarantasettenne Pamela Anderson, attrice famosa prevalentemente, per non dire solamente, per il personaggio di C.J. in una delle serie più popolari degli anni ’90. La class procede tranquilla, tra cinecomics (Mario Sesti azzarda in Baywatch un antesignano dei cinefumetti multimilionari di oggi), aneddoti e il recente impegno sociale dell’attrice canadese. Finita la chiacchierata col direttore artistico del Festival l’attrice si concede alle domande del pubblico: a parte qualche domanda/complimento, arrivano le domande/insultovelatodasimpaticaironia.
Prima le viene chiesto in cosa consiste il suo impegno nel sociale, l’Anderson risponde educatamente e spiega, in linea generale, quale sia stata la sua personale esperienza e cosa pensi sia utile fare per risolvere questi problemi. Subito dopo arriva la domanda sul seno, e di come sia stato utile, al ché l’attrice risponde simpaticamente: «Sono state molto utili, infatti le ho portate sempre con me». A questo punto, una signora non meglio identificata chiede nuovamente in cosa consista il suo impegno pratico nella lotta alla violenza delle donne, al ché l’attrice risponde, garbatamente, facendo anche notare come avesse già risposto prima. Infine, due domande fuoriluogo: prima dal pubblico le si chiede con quale regista italiano voglia lavorare, e poi la domanda viene modificata da Mario Sesti in «Con quale regista canadese vorresti lavorare?», fuoriluogo per il tipo di personaggio, certamente non propenso a film d’autore o di un qualsivoglia interesse artistico.
Dopo pranzo, in una sala purtroppo quasi deserta che si è andata man mano riempiendo, viene proiettato il dolcissimo e gustosissimo Many beautiful things, per la regia di Aurelio Gambadoro con protagonista predominante Vincent Schiavelli. Il tutto inizia, e lo è per tutto il film, come un grande e bellissimo spot della città di Polizzi Generosa (Pa), comune originario dei nonni dell’attore. Tra testimonianze, racconti di amici e spezzoni di filmini, possiamo conoscere meglio Vincenzo, attore hollywoodiano che preferisce andare a vivere in un paesino di neanche 4000 abitanti, forse anche per scappare alla fama e alla vita americana. La storia è quella di tanti figli di emigrati, fatta di buona cucina e racconti meravigliosi su posti ancor più meravigliosi, racconti che vengono soprattutto dal nonno che lo ha cresciuto dopo la morte del padre.
L’amore di Schiavelli per la cucina si vede non solo dalla pubblicazione di un libro di storie e ricette polizzane, dal quale titolo l’autore Gambadoro ha preso il titolo, ma anche dal fatto che gran parte degli spezzoni che lo ritraggono sono a tavola, in qualche ristorante, o comunque parlano della cucina e di ciò che gira intorno. Questo breve documentario (solo 56 minuti) autoprodotto e autofinanziato, riesce ad emozionare, raccontando come il grande attore sia stato anche un grande uomo, umile, semplice e che ha saputo godersi la vita. Le riprese mostrano l’amatorialità dell’opera, che comunque non infastidisce, solo forse l’audio e gli sbalzi di volume, a volte possono non essere gradevolissime. Il passaggio tra 16:9 e 4:3 è un semplice e facile espediente per mostrarci le immagini di oggi e quelle di “ieri” senza bisogno di spiegare o dire nulla, basta il formato per farci capire in che periodo siamo. La storia del nonno cuoco, dei topi e del nobile del paese rimane un punto altissimo, mentre il dialetto sporco dell’attore lungo tutta la pellicola lo avvicina molto di più a tutto il pubblico siciliano.
Nel tardo pomeriggio inizia la sezione Focus argentina con Corazon de Leòn, film del 2013 di Marcos Carnavale. Il film è la storia di due ricchi borghesi argentini che si incontrano, si amano, e però non riescono a stare insieme per un piccolo problema: lui, Leòn, è alto 136cm. Il film è semplice, a tratti banale, parzialmente comico, mai noioso ma sempre prevedibile. I personaggi sono semplici, stereotipati e poco caratterizzati, quasi delle macchiette semplici e piatte. Il finale buono e buonista non rovina la visione che diverte e intrattiene, in maniera semplice, ma senza entusiasmare.
Prima del secondo film argentino le solite premiazioni: Roberto Nepote (dirigente RaiCinema) riceve un Taormina Awards dalla bellissima Kim Feenstra, Rosetta Sannelli consegna a Carla Fracci il premio Kineo (partnership tra il Festival di Venezia e quello di Taormina), altri due Taormina Awards a Remo Gironi e a Pamela Anderson. Infine, proprio per la sezione Argentina, un riconoscimento da Roberto Stabile alla delegazione argentina formata da Roberto Puyol (regista), Louis Calella, Fernando Cayo, Claudia Palmero e Antonella Costa.
Il film in concorso è Vino para robar, anch’esso dell’anno precedente, del regista Ariel Winograd. La pellicola è un comic-rom-gangster-movie semplice, che strizza l’occhio al cinema americano: un italian Job, un’americanata del sud che comunque diverte e riesce a intrattenere per tutti i 105 minuti. Verso la fine la protagonista indossa una maglietta di North by Northwest, citazione di difficile decifrazione, forse riferita anche alla sceneggiatura o alle scelte stilistiche, seppur il film abbia dei movimenti di macchina che non sono affatto male. Altro punto a favore è una scena in notturna girata palesemente di giorno col filtro blu.
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