Tacere o non tacere? Questo è il dilemma

Nel suo editoriale per il primo numero del 2006 del “Giornale della musica”, Giorgio Pestelli, pur consapevole che nel nome dei grandi musicisti del passato si sono sempre organizzate manifestazioni celebrative di anniversari e ricorrenze varie, notava  – ma lo faceva già Sergio Sablich nel famigerato “anno mozartiano”, il 1991, con pagine taglienti come Mozart e la pubblicità, articolo apparso su quello stesso mensile torinese –  come, nel 2006, le celebrazioni mozartiane avrebbero il carattere autocelebrativo tipico dell’impresa mediatica. Poco in ansia per spillette, cioccolatini, pupazzetti e profumi, in quell’editoriale, Pestelli si dichiara invece preoccupato che questa sia soltanto una nuova occasione per riscrivere la figura del genio salisburghese e, per nulla occupandosi di musica in senso stretto, confezionare per lui un’immagine falsa attraverso l’amplificazione di quei contraddittori tratti caratteriali (l’essere sboccato e volgare, l’essere “ribelle” e chiassoso, ad esempio) che lo rendono un personaggio più “vendibile” sul piano massmediatico.

Le affermazioni di Pestelli hanno un certo fondamento; si può dissentire facendo notare che è proprio grazie a pagine cinematografiche come Amadeus di Forman che, nel 1984, anche i ragazzini intenti ad ascoltare solo le hit del momento acquistarono la loro brava copia del Requiem K. 626 (e proprio Milos Forman presiederà quest’anno una delle sedute del convegno Mozart – A Challenge for Literature and Thought ospitato dal Department of German del Queen Mary College di Londra – link:
http://www.sun.rhbnc.ac.uk/Music/Conferences/06-4-moz.html ),
ma tutto sommato, dopo aver letto Pestelli, ci si chiede se in questa occasione non sarebbe meglio tacere.

D’altra parte, Pestelli stesso annota il fatto che gli anniversari, nel passato, hanno dato vita a significative e memorabili “imprese”: “al primo decennale della morte di Beethoven (1837) dobbiamo la Fantasia op. 17 di Schumann, al primo centenario della nascita di Goethe (1849) il Tasso di Liszt, le Faust-Szenen e il Requiem per Mignon ancora di Schumann; e la Passione secondo Matteo di Bach fu resuscitata a cento anni dalla sua prima esecuzione, e nel 1850 (primo centenario della morte di Bach) si fondarono “Società Bach” con lo scopo di pubblicare tutte le opere del maestro, rimaste per lo più inedite e mezzo sconosciute”.

E sulla scorta di queste riflessioni me ne sono tornate in mente altre di qualche tempo fa. Mi sono ritrovata oggi a domandarmi come mai, al di là del valore dei diversi prodotti musicali, intorno a certi personaggi sia sempre possibile animare mirabolanti battage pubblicitari mentre nel nome di altri tutte le iniziative pensate abbiano sempre l’odore stantio delle “buone cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria.

Ricordo che, qualche anno fa, Giuseppe Frazzetto, nel suo delizioso Diario bavarese apparso sulle pagine di Postcontemporanea.it, tornato dalle ferie estive, annotava le sue argute osservazioni a proposito delle differenze tra Italia e paesi d’Oltralpe. Quell’Oltralpe che ha il sapore di una sorta di allargata Cacania in cui come suggeriva Musil “un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio”.

Ché di geni e di babbei è davvero il caso di parlare se guardando alla vicina Austria ci accorgiamo che la graziosa Salisburgo con i suoi 144.817 abitanti (dato registrato nel 2001), nel 1767 non proponeva che una “modesta realtà” (Pietro Melograni) che nonostante l'”antichissima civiltà” a gente come i Mozart  – tanto per fare un esempio –  apparve sempre “chiusa e diffidente” (Bernhard Paumgartner) e lo stesso Amadè (così come il noto compositore amava firmarsi), rampollo di quella famiglia, non la avvertì mai come “sua patria” nonostante vi avesse avuto i natali, non lesinando “amari giudizi non solo sulla corte, ma anche sulle condizioni di vita a Salisburgo in generale, sulla mancanza di “divertimento” […] e sul rozzo stile di vita dei salisburghesi” (Georg Knepler), tanto da scrivere “preferirei essere da un’altra parte piuttosto che a Salisburgo” (lettera al padre, Parigi, 9 luglio 1778).

Ma quell’odiata Salisburgo chiusa e rozza alla fine ha pure riservato, lo sappiamo bene, qualche piacevole sorpresa al genio mozartiano e oggi, recandosi nella cittadina austriaca, si assiste ad un carosello di iniziative, ad una pletora di manifestazioni (molte delle quali di altissimo livello qualitativo e talmente note che non sembra nemmeno il caso di rammentarle) tutte intitolate a WAM e che non disdegnano, sul puro piano del marketing, la creazione dei famosi dolcetti e quant’altro che in comune con Mozart altro non hanno che il battesimo.

Un genio, certo, Mozart, tanto genio che è sulle “passioni” della sua mente che Norbert Elias costruisce una sua personale analisi del genio. Ma, senza voler fare paragoni di sorta (lo stesso gap temporale ce lo sconsiglierebbe) e tenendo conto del fatto che la fortuna di Mozart, come suggerisce Gernot Gruber, cominciò appena un decennio dopo la sua tragica scomparsa, da Catanesi, sembra quasi obbligatorio domandarsi come mai sulle spoglie mortali  – dimenticate nella buia navata destra del Duomo cittadino –  e sulla memoria di uno dei figli eletti della città etnea non si sia mai creata nemmeno una piccolissima “fortuna” se è vero com’è vero che Vincenzo Bellini continua a restare il meno studiato e il meno conosciuto dei cinque grandi operisti italiani.

Se proprio si volesse tentare qualche paragone si scoprirebbe che i numeri per costruire intorno a Bellini un piccolo “caso” ci sarebbero tutti: Bellini lascia Catania che continua ad amare ma dalla quale, come un giovane brancatiano, si allontana per cercar fortuna; Bellini, come Mozart, muore giovane e, ancora, come l’illustre collega salisburghese, in circostanze poco chiare. Per non dire poi che, questa volta come l’amatissima martire Agata (ultima frontiera delle “iniziative culturali” cittadine), anche di `Nzuddu le ceneri furono traslate e riaccolte in patria con grande gioia dei conterranei.

Difficile distribuire equamente le più antiche colpe del silenzio intorno all’affaire Bellini. Più facile tentare invece oggi di valutare. Il Museo Belliniano (per troppi anni unico museo cittadino), che in verità non è che la casa natale del Cigno, insieme a brutte riproduzioni fotografiche, ad una serie quasi inutile di simboli del kitch pseudo-musicologico (lire ricamate tra le cui corde brilla uno dei capelli del Cigno, medaglioni che serrano tra due vetri un ciuffo di peli, pardon, di capelli del biondo Vincenzo….), conserva in obsolete teche le poche carte autografe di Bellini; ma definire conservazione la ridicola esposizione dei manoscritti agli occhi dei visitatori ma soprattutto alla luce e alle bocche fameliche dei parassiti è davvero un’esagerazione. Si dica, a puro titolo di cronaca, che le carte mozartiane, per esempio, dormono beate in un sotterraneo in cui la temperatura e l’umidità vengono tenute costanti da costosi apparati. Nella bella Catania, è sufficiente eludere per qualche istante la cortese sorveglianza del personale del Museo per aprire (anche con una forcina per capelli probabilmente) una delle teche e portare a casa un souvenir belliniano che più che raro è decisamente unico: si potrebbe scegliere ad esempio la copia dei cosiddetti “Puritani di Napoli” e provare a godersi, in tutta calma, le “deliziose” rosicchiature che negli anni i molti più o meno grandi ospiti delle teche hanno lasciato su quelle preziose pagine, tra terzine e trilli, a futura memoria. Gli amanti poi del modernariato potrebbero scegliere l’autografo dannunziano con l’Inno al Cigno che il debordante Vate donò nel 1901 (anno del primo centenario della nascita di Bellini) alla città. Pare che le “novità” riguardo al Museo Belliniano si sprechino ma, ahimè, pur insegnando una disciplina musicologica nell’Ateneo catanese impegnata per anni e in prima persona alla redazione di un catalogo del Museo Belliniano del quale non ho più avuto notizia, non ne sono stata informata e mi domando se, oltre alle solite roboanti conferenze stampa, ci sia davvero un impegno fattivo e concreto.

Tentativi per cambiare il sonnolento stato delle cose? Pochi in verità. Nessuno certo sul piano di quel marketing che non dovrebbe limitarsi soltanto a chiamare “Bellini”, o all’occorrenza “Il Cigno”, le gelaterie cittadine. Eppure… eppure i tentativi ci sono stati e non tornerò ad enumerarli in questa sede per la stanchezza che m’ha procurato il continuare a ricordarli in questi anni. Promesse? Tante in verità. Impegni mantenuti? Nessuno.

A questo punto, torno alla mia polemica proposta d’un tempo: stanca di proposte “pesanti” e di idee informate a quel provincialismo che affligge sempre  – chissà perché? –  la nostra città quando si parla di melodramma, non ho altro che “proposte leggere” e provocatorie anche, non me ne vogliate: i `nzuddi li abbiamo già, la pasta alla Norma pure, allora perché se a Salisburgo hanno fatto dei dolci che si chiamano “palle di Mozart” qui a Catania non proviamo a fare la “m… di Bellini”?!

Emanuela E. Abbadessa

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