Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street

Quando il gotico si mescola al musical, potrebbe essere un capolavoro. Se poi il regista è Tim Burton e un cast da sogno, allora lo sarà per certo.

“Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street” sembra essere ispirato a un personaggio settecentesco realmente esistito: un barbiere che ha sgozzato 160 clienti nella Londra della miseria.

 

“Sweeney” era già un “classico” tra i musical, che adesso ha trovato un posto speciale a Hollywood. Già, speciale visto che ha vinto la statuetta come miglior film musicale e Johnny Depp ha incassato il suo primo Golden Globe come attore protagonista, una statuetta che arriva proprio all’apice della sua notorietà.

 

Le scenografie affidate a Dante Ferretti non sono state da meno, in una Londra più vittoriana che settecentesca.

L’atmosfera cupa, in cui i colori predominanti sono il nero e il grigio nelle più varie gradazioni, o una soffitta disadorna con la sola sedia in cui il barbiere “rade” i suoi clienti, esaltano la condizione di solitudine e di chiusura del protagonista.

Non c’è più Benjamin Barker, uomo felice caduto in miseria per la prepotenza di un giudice che gli ruba la moglie e la figlia.  

Con il ritorno, c’è solo spazio per la vendetta, e anche il nome cambia: Sweeney Todd, il vendicatore.

Il diavolo miltoniano che mette in atto il suo diabolico piano di vendetta, la vendetta che mette in moto tutto, il sangue che scorre dall’inizio alla fine del musical.

 

Un sangue “catartico” come dice lo stesso Tim Burton, irreale e strumentale, esagerato insomma, così come lo voleva il regista.

Il macabro dilaga, l’allegra inconsapevolezza dei londinesi che mangiano carne umana, l’efferatezza del barbiere in un continuo massacro…questa è l’ironia di Tim Burton consapevole che non farà ridere tutti.

I contrasti stessi, come il ritorno dei colori, assumono toni cupi. Ad esempio la vedova Lovett che canta parole d’amore al suo Sweeney: il suo è un canto al vento, che non ha una ricezione o un ritorno.

La rappresentazione della vita quotidiana, di due persone che pur vivendo sotto lo stesso tetto sono separate e non si capiscano, affascina il regista, che rende la solitudine proprio tramite le musiche mai oscure o tragiche, per alleggerire l’atmosfera funerea.

 

Nota di merito ad Helena Bonham Carter, moglie di Tim Burton, di nuovo in coppia con Johnny Depp dopo “La fabbrica di cioccolato”.

Niente Golden Globe per la brava attrice che si vede superata dal premio Oscar Marion Cotillard per “La vie en rose”. Ma forse prossima ad una statuetta, se è vera la regola che dopo avere affiancato un Oscar, o comunque un attore molto quotato, si è prossimi nel vincerlo.

Tra canti, costumi ed interpretazione la Bonham Carter dà il meglio di sé, completando un film capolavoro nel suo genere: gotico e musical. Tim Burton e Depp.

Lucia Occhipinti

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