Summit Libia, al Moltivolti le (contro)storie dei prigionieri «Che ne sanno i potenti se lì non sei più un essere umano?»

«Uno che non ha l’idea di cosa accade dall’altra parte del mondo come fa a prendere parte a un incontro per parlarne come se fosse lui ad affrontarlo in prima persona?». Che ne sanno, in effetti, tutti i Putin, i Trump, le Merkel – che comunque nemmeno ci sono al vertice sulla Libia che si conclude oggi a Villa Igiea – di cosa sia lo Stato nordafricano? Con le sue prigioni, con le sue torture, con le storie di tutti quei prigionieri che riescono a salvarsi solo salendo a bordo di una barcone mezzo rotto che non si sa fino a dove riuscirà a condurli? Eppure è proprio di Libia che si parla per due giorni qui a Palermo: un vertice iniziato ieri e che si concluderà oggi e che riunisce i potenti della Terra, o quasi. Un vertice in cui, a dispetto, dei Medvedev, degli Al Sisi e degli Tsipras di turno, a mancare veramente all’appello sono nomi e storie come quella di Khaoussou, che in quella Libia invece c’è stato. «C’è davvero poca consapevolezza in giro di quello che accade lì» dice. Poca consapevolezza di storie come la sua, che ha deciso di raccontare. Lo ha fatto aspettando seduto dietro a un tavolino del Moltivolti, a Ballarò, dove i soci hanno pensato di organizzare una serata di incontro proprio con chi da quell’inferno c’è passato. Chiunque poteva entrare, scegliere una sedia, quindi un ragazzo, e perciò una storia, una testimonianza da raccogliere, di cui diventare custode.

«La Libia è un passaggio obbligatorio, se vuoi andare via, se vuoi inseguire un sogno – dice subito Khaossou, 19enne del Senegal -. Sono stato lì per sette mesi, tutti trascorsi in prigione, ero uno schiavo, non ero libero di andare da nessuna parte, neppure di tornare indietro nel mio Paese». Non è facile per lui raccontare nello spazio di un quarto d’ora – questo il tempo concesso per ogni tavolino, poi occorre dare il cambio a chi come te ha fame di quella storia – quello che sono stati quei mesi lì. Si era messo in viaggio per potere studiare all’estero, un’opportunità per un giovane come lui. Alla fine lo è stata, ma il prezzo è stato alto. Perché ancora oggi raccontare quanto subito per mesi e mesi non è facile per Khaossou. «Una volta che inizi questo tipo di viaggio tu per primo non avrai la voglia di tornare indietro, perché dopo che hai visto e vissuto certe cose, puoi solo pensare di andare avanti. Nessuno vorrebbe mai rivivere cose del genere, non le auguri a nessuno, pensi “anche se posso morire vado avanti” – racconta, tenendo lo sguardo sempre basso, quasi si vergognasse di quello che ha subito -. Ti trattano come se non fossi un essere umano, con la complicità della polizia che aiuta e collabora coi trafficanti».

Sono storie che si ripetono come copioni di una tragedia, quelle del 19enne e degli altri che come lui ieri sera si sono esposti e hanno scelto di condividere la propria drammatica esperienza con degli estranei. Un copione che ormai si conosce. «Lì usano tutti il flusso migratorio come un’opportunità per fare soldi, è un traffico, lo sanno tutti. Invece di aiutare la gente se ne approfittano, ti mettono in prigione, ti costringono a chiamare qualcuno che ti può mandare dei soldi per farti uscire, altrimenti muori lì». E poi ci provi a fargli alzare quello sguardo, a quel ragazzo che sta seduto dall’altra parte del tuo stesso tavolino. Ci provi a metterti nella sua pelle, per sentire anche tu su di te quello che ha provato lui. «Se mi hanno fatto del male? – sorride – Assolutamente sì, eravamo molti, moltissimi. Uomini, donne, bambini. Ogni mattina entrava uno e bastonava tutti, senza motivo. Non puoi fare nulla, non puoi andare da nessuna parte, anche per fare pipì devi chiedere il permesso a un sorvegliante che deve essere disposto ad accompagnarti, altrimenti puoi fartela addosso. Le donne le usano solo come oggetto di sesso. Ogni volta che penso a quello che ho dovuto affrontare…be, ci rimango male, non lo augurerei a nessuno».

Sa bene, mentre parla della sua storia, che dall’altra parte della città c’è qualcuno con la pretesa di conoscere la Libia tanto quanto lui. «Si sono riuniti per ragioni economiche, non per discutere della pace in Libia, la pace la possono stabilire solo i libici, non gli altri – dice -. Sono qui per confutare quello che sta succedendo dall’altra parte della città, sono lì per difendere loro stessi dimenticando la maggior parte della popolazione, quello che racconto io l’ho vissuto in prima persona, forse avrebbero dovuto sentirlo anche loro che sono a Villa Igiea questo mio racconto». E magari, tra gli ospiti, avrebbe dovuto esserci anche il camerunense Chamwil, che in Libia c’è stato per sei mesi, durante i quali si è spostato solo per cambiare prigione e carcerieri. Finisce anche nell’appartamento di un trafficante, insieme ad altri duecento aspiranti rifugiati. Vivono ammassati e mangiano una volta al giorno, per fare i bisogni usano una bottiglietta. Fino a quando un gruppo di nigeriani decide di tentare la fuga, sfondando la porta della casa. Fuggono e si perdono le loro tracce, ma al ritorno il trafficante deve punire qualcuno e si scaglia contro chi era stato testimone di quella fuga senza fermarla.

«Ci hanno fatti entrare tutti in una stanza, seduti per terra per guardare chi doveva essere punito. Erano una quarantina, li hanno spogliati buttandogli addosso dell’acqua fredda – racconta -, li hanno minacciati con un fucile e costretti ad accoppiarsi fra loro, mentre il trafficante gettava dell’olio d’oliva sul sesso di chi stava dietro a chi doveva essere penetrato, erano tutti terrorizzati. Hanno fatto quello che diceva il trafficante, davanti agli occhi di tutti, voleva umiliarli». A inscenare tutto è Achim, che lì in quella casa è il boss. «Non posso dimenticare questo nome, credo che non lo farò mai: un uomo capace di tutto, di spararti all’improvviso senza farsi troppi scrupoli». Lui che dal suo Camerun è andato via per motivi personali, senza nemmeno sapere che sarebbe finito in Libia, non sapeva cosa lo avrebbe atteso su quelle coste. «Nessuno mi aveva detto cosa succedeva in quel posto, quando entri lì non c’è modo di tornare indietro. E no, non lo rifarei assolutamente. Questo direi a chi ora sta seduto a quel summit, a loro non interessa quello che noi abbiamo vissuto in Libia, di noi non sanno niente, non vogliono sapere niente».

Silvia Buffa

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