«Il sesto suicidio dall’inizio dell’anno. Non c’è dubbio che le difficili condizioni di vita e il colpevole ritardo nella presa in carico dei loro problemi siano fra le componenti del disagio che assilla quotidianamente questi servitori dello Stato». A dichiararlo ieri è stato l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. L’esponente della Lega ha riacceso i riflettori sul mondo della polizia penitenziaria, dopo la notizia di un’agente di 42 anni che, a Palermo, si è tolta la vita. La donna lavorava nel carcere Pagliarelli, lo stesso penitenziario in cui tra il 12 e il 20 agosto ha registrato altri due suicidi. Ma tra i detenuti. Episodi tutt’altro che rari, ma che spesso passano inosservati, alimentando le statistiche ma restando lontano dal dibattito.
«Notizie come queste dovrebbero fare pensare, ma non in maniera superficiale. Dovrebbero dare il la a una profonda riflessione su cosa siano oggi le carceri in Italia». A parlare a MeridioNews è Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, l’associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie del sistema penale. «Le cronache di questi giorni, lo stesso gesto commesso sia da un’agente della polizia penitenziaria che da diversi detenuti, testimonia ancora di più lo stato di abbandono nei penitenziari. Quanto sia difficile la vita lì dentro».
A togliersi la vita in poco più di una settimana è stato anche un terzo detenuto: nel carcere di Caltagirone, infatti, si è suicidato l’uomo accusato di avere ucciso la moglie sulle scale dell’appartamento in cui i due vivevano. All’origine del delitto ci sarebbe stata la decisione della vittima di troncare il rapporto. Su questo suicidio è stato aperto un fascicolo per capire se ci siano state negligenze nella sorveglianza del detenuto. I due detenuti del Pagliarelli, invece, erano accusati di violenza domestica e maltrattamenti. «Dall’inizio dell’anno sono 38 i detenuti che si sono suicidati in Italia, un numero in linea con quanto accaduto negli anni scorsi, anche se nel 2020 la popolazione carceraria è meno numerosa in seguito alle misure prese per l’emergenza Covid», prosegue Apprendi.
A queste cifre vanno aggiunte quelle di chi ha tentato di togliersi la vita, senza però riuscirci. «So che è una frase forte, ma in troppi casi, specialmente quelli riguardanti soggetti più deboli, entrare in carcere è un po’ come morire – va avanti il presidente di Antigone -. Si finisce per essere dimenticati e gli unici contatti sono quelli con i familiari». Tra le difficoltà che, secondo l’associazione, rendono più critica l’esperienza all’interno delle celle c’è quella riguardante la capacità dei detenuti di comunicare eventuali disagi. «L’assistenza, anche di natura psicologica o psichiatrica, sottostà a una trafila burocratica che spesso non consente di intercettare i problemi in maniera tempestiva», commenta il presidente di Antigone.
Parlare funzione rieducativa delle carceri è un po’ come cimentarsi in astrazioni e teoria, perdendo di vista la realtà. «Nonostante sia un obiettivo contenuto nella nostra Costituzione – ricorda Apprendi – le cose stanno molto diversamente. L’intero sistema penitenziario è fortemente carente nelle figure che dovrebbero svolgere quel servizio di assistenza che dovrebbe puntare a consentire il reintegro del detenuto in società. E invece sembra ci si dimentichi che in carcere ci si va per scontare una pena e non per stare male». I penitenziari sono ancora oggetto di una narrazione che poco ha a che vedere con lo stato delle cose attuali. «Negli anni Settanta c’era questo modo di dire che considerava le carceri come degli hotel e ciò per le notizie di boss riveriti. Non è più così da tempo, ma soprattutto – conclude Apprendi – si sorvola sul fatto che spesso a finire in carcere sono gli ultimi».
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