Stuolo di prestanome per aggirare il protocollo Antoci Clan e colletti bianchi per spartirsi a tavolino i Nebrodi

Mogli, genitori, figli, cugini, zii, cognati, suoceri, generi. Bisogna riuscire a non perdersi tra i rami degli alberi genealogici per ricostruire la rete del cosiddetto sistema Marino che prende il nome dal suo ideatore Agostino Antonino Marino detto Nino Gammazza (tra gli arrestati della maxi operazione della mafia dei Nebrodi). Una mafia dei pascoli ultramoderna e bene informata che punta ancora alla terra. Perché è da lì che arrivano i finanziamenti dell’Unione europea su cui realizzare truffe sistematiche e molto redditizie. Un giro di milioni di euro di proventi illeciti per cui è necessario impiegare dei prestanome, meglio se giovani e inesperti, a cui intestare le aziende in cambio di cifre irrisorie. Si innesca così un circolo vizioso che parte dalle intestazioni fittizie per arrivare alle truffe comunitarie facendo ottenere illeciti guadagni

Dalle indagini portate avanti per anni dalla Dda di Messina emerge come «i mafiosi ridano, in sostanza, del protocollo di legalità, e hanno dimostrato la capacità di aggirarlo con raffinatezza e sapienza», scrive il giudice facendo riferimento al protocollo voluto dall’allora presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci che, nel 2014, introduce per l’assegnazione degli affitti dei terreni l’obbligo di richiedere la certificazione antimafia anche per i terreni di valore inferiore ai 150mila euro. Un protocollo che, dopo essere applicato nel Parco, nel 2016 viene esteso a tutta la Sicilia per diventare poi una legge dello Stato. È di questo che i mafiosi ridono e, con ironia, palesano il proprio dissenso e la soddisfazione di essere riusciti a raggirarlo come emerge da una conversazione telefonica intercettata nel maggio del 2018. Uno degli indagati parla con un operatore di un Centro autorizzato di assistenza agricola (Caa) «Ci vogliono le firme dell’organizzazione, disgraziata sventura (dice riferendosi ai rappresentanti dei Caa che devono cofirmare, insieme ai beneficiari, le concessioni dei lotti agricoli e pascolativi concessi dagli enti regionali, ndr). Umh! Protocollo della legalità», dice suscitando una ilare risata dell’operatore.

A mettere in pratica il sistema truffaldino è Nino Gammazza che, negli anni, è riuscito a maturare le competenze necessarie per aggirare l’iter dei finanziamenti, diventando la mente e il braccio di diversi produttori agricoli interessati a presentare false domande di aiuto e di pagamento. Trova funzionari che si fanno avvicinare, individua falle e vulnerabilità del sistema degli aiuti comunitari per trarne benefici per sé e, secondo l’accusa, per l’organizzazione mafiosa di cui è «espressione organica». Profonda conoscenza del sistema degli aiuti comunitari e grandi capacità organizzative emergono nella costituzione di fittizi imprenditori agricoli da rendere attivi nella presentazione delle domande di contributo. In tutto questo Nino Gammazza non è solo: al suo fianco c’è il figlio Rosario (anche lui arrestato), operatore di un Caa. È così che, dal 2012, avviene «l’impossessamento e il furto virtuale dei terreni, anzi – come scrive il giudice – del territorio intero».

Proprio per la capillarità del sistema è necessario pianificare la spartizione delle aree di influenza tra i sodali dei due diversi gruppi. Batanesi da una parte e clan Bontempo-Scavo dall’altra si accordano per evitare la contesa e scongiurare, quindi, la duplicazione o la moltiplicazione di richieste diverse sulle stesse particelle di terreni. Un errore che, come sottolineano gli inquirenti, «avrebbe dato inevitabilmente sede ad accertamenti sulla veridicità di ciascuna istanza duplicata». Il senso di impunità non sembra, comunque, caratterizzare chi entra a fare parte di questo sistema. Nel luglio del 2017 è Giuseppe Costanzo Zammataro (anche lui arrestato nell’operazione Nebrodi) a fare quella che viene definita «la profezia». È a bordo della sua macchina mentre, senza sapere di essere intercettato, conversa con un suo sodale: «Tutte cose mi levo perché, prima o dopo, di arrestare, ci arrestano e sequestrano i titoli». L’intenzione è quella di dismettere tutto il suo patrimonio per il timore dell’arresto e del sequestro dei titoli che gli consentono di ottenere i contributi comunitari. Una esternazione che, letta oggi, sembra un presagio. 

Meno previdente è invece Domenico Coci, prestanome di Aurelio Salvatore Faranda e dell’associazione per delinquere, e genero di Sebastiano Conti Mica – detto U belloccio insieme al quale traffica droga. Non solo, è lui che lo accompagna in diverse occasioni agli appuntamenti con Nino Gammazza per discutere di strategie di controllo dei contributi comunitari erogati dall’Agea. Il suo ruolo è quello di intestatario fittizio di diverse imprese funzionali a percepire questi fondi nell’interesse della famiglia Bontempo Scavo, di cui suo padre Antonino (ormai defunto) sarebbe stato un uomo di fiducia. Ambiente al quale lui stesso appare contiguo anche per via di una parentela: è infatti il nipote di Sebastiano Coci, suocero di uno dei fratelli di Faranda. In una conversazione con il suocero, dopo un incontro con Marino, mentre parlano di imprese false da usare per ottenere gli aiuti comunitari Coci – «evidentemente esperto di diritto e involontario teorico dell’aggiramento del 416 bis», come lo definiscono gli inquirenti – fa un suo calcolo che, però, a differenza della profezia, si rivelerà sbagliato. «E ci denunciano, niente ci fa…Con altri 1.500 euro apri la cooperativa. La faccio pure io, voglio credere… Più che ti possono dare, truffa? Che cazzo ti interessa».

Marta Silvestre

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