Studiare le lingue: dalla parte dei prof

Innanzi tutto alcune precisazioni:
Le prove di inglese seguono da vicino la tipologia degli esami del Cambridge University Syndicate (PET, First…) e dunque comprendono una prova di listening, una di reading e una di writing, a loro volta costituite da prove quali le famigerate transformations, multiple choice etc. Tutte prove che garantiscono una valutazione obiettiva. L’unica differenza sostanziale è la prova di traduzione, che comunque è stata notevolmete ridimensionata rispetto al passato e ora consiste solo in alcune frasi.

La reliability della correzione è a prova di bomba: due persone correggono, poi c’è il double checking, poi ancora – nei casi borderline -una terza correzione. Questi casi di studenti che non hanno passato lo scritto per mezzo punto mi sembrano un po’ leggende metropolitane perchè a quello che mi risulta si è sempre trattato almeno di un punto e mezzo. In ogni caso gli italiani hanno spesso difficoltà ad accettare l’idea della linea di confine che separa un’inclusione da un’esclusione, una puntualità da un ritardo, un rispetto del codice stradale da un’infrazione : se si stabilisce che il pass grade è 60, allora è 60, e ci dispiace per i 59,50, ma se accettassimo loro ci dispiacerebbe per i 59 e così via. Un limite garantisce oggettività ed equanimità  nel trattamento. E poi un 60 dovrebbe essere un incidente di percorso, non un obiettivo!!!

Le lettrici del nostro dipartimento sono persone di grande riservatezza e modestia, ma se è il caso posso elencarvi i titoli che confermano – oltre all’esperienza – la loro competenza per occuparsi di valutazione e più in generale di insegnamento dell’inglese come lingua straniera: corsi sulla valutazione, masters in linguistica applicata o TEFL, articoli pubblicati in riviste internazionali. Per darvi un’idea, per l’esame di Testing del mio master ci sottoponevano più volte una stessa prova con un nome diverso o in un ordine diverso per essere sicuri che nella valutazione non ci facessimo influenzare dalla nazionalità o dal sesso di un candidato, o dall’essere il primo o l’ultimo della serie.

Chiariti allora questi punti,  possiamo cercare assieme agli studenti altre
cause e poi altre soluzioni.

Dalla mia esperienza come tutor per quanti avevavo difficoltà a superare la composizione, ricordo bene che fra gli studenti che hanno seguito il corso (regolarmente e attivamente) c’è poi stata un’altissima percentuale di pass. Dunque il numero di studenti per classe fa sicuramente la differenza, cosa che è ovvia per quanti sanno cosa vuol dire insegnare e imparare una lingua straniera ma forse non tanto ovvia per i nostri governi. Con il il rapporto numerico docenti-studenti che abbiamo attualmente, come sollecitare una pratica adeguata della lingua, come individuare forme più individualizzate di intervento? Un intervento più individualizzato rivelerebbe fra l’altro altre possibili cause di insuccesso: ho dedicato ad esempio tanto tempo del corso di tutorato a tirar fuori e poi rimuovere il malcelato rifiuto della composizione in inglese vista dagli studenti come concreta espressione di …”quanto sono rigidi questi inglesi!”. Con questa solida convinzione dentro, come può uno studente modificare il proprio modo di scrivere in inglese?

Ho parlato prima della frequenza regolare come condizione necessaria per il superamento degli scritti. Dovrei aggiungere necessaria ma non
sufficiente, perché l’altra parola-chiave è “attiva”.
L’altra volta dicevo scherzosamente agli studenti di non venire a lezione come potrebbero andare a Lourdes – aspettando un miracolo, un’illuminazione, un travaso osmotico dal docente allo studente. Come dicono certi cartelli nei negozi: facciamo l’impossibile per accontentarvi, per i miracoli ci stiamo attrezzando. Nel frattempo, perché gli studenti non si fanno parte attiva della lezione, vincendo pigrizie e timidezze poco adatte a chi ha scelto un corso dal titolo sicuramente impegnativo di Scienze per la Comunicazione Internazionale?

Due altre cose noto nell’approccio degli studenti allo studio dell’inglese, che potrebbero concorrere all’insuccesso allo scritto: primo, molti hanno colto il senso della lingua come strumento di comunicazione e parlano con discreta scioltezza, tuttavia hanno una forte resistenza allo studio analitico di una lingua, cosa che – per studenti di s.c.i. – è altrettanto fondamentale: non sono medici, ingegneri, fisici che devono usare l’inglese per parlare della loro materia con colleghi belgi, greci e ungheresi. Sono persone che potrebbero fare traduzioni, interviste, scrivere articoli, diventare guide turistiche, insegnare. Non devono solo parlare scioltamente ma correttamente, mostrare competenza linguistica e non solo comunicativa.

Seconda cosa: nei progetti europei sullo studio delle lingue si parla di
life-long learning. Studiare una lingua è un progetto quotidiano e per tutta la vita! non si studia una lingua per superare l’esame, mentre prima e dopo si studia storia, geografia, arte, un’altra lingua… Una lingua si studia sempre, anche quando si studia per un altro esame. Quello che invece noto negli studenti è un approccio di brevissimo respiro allo studio dell’inglese: fuori dal periodo in cui “studiano inglese” (alias studiano inglese per l’esame) non cercano parole sul dizionario, non leggono articoli, non cercano occasioni per parlarlo. In quest’ottica il corso di recupero viene visto da molti come soluzione ideale, mentre il lettorato è percepito spesso come una perdita di tempo a meno che non sia una continua prova d’esame.

Se a tutto questo si aggiungono altre cause individuate dagli studenti
stessi nei loro commenti all’articolo – l’attitudine alle lingue, il metodo
di studio, la quantità di studio – credo che più o meno i numeri tornano e le vittime illustri e innocenti non sono poi tante.

Io quello che noto è che gli studenti che arrivano al secondo anno sono bravi, sono studenti di cui potrei dire con sicurezza che hanno raggiunto gli obiettivi che un corso di laurea in SCI deve porsi, sono studenti che so non ci farebbero sfigurare davanti a studenti di altre città o nazioni.

Beh, è tutto. Spero di aver dato un contributo alla creazione di un clima più sereno e di fiducia, che fra l’altro – come insegna Krashen e la sua ipotesi sull’affective filter!  – è una condizione fondamentale per l’apprendimento di una L2.
Buon lavoro!

Anna Reitano

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