«Il 19 luglio del 1992, il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai. Qualche mese dopo la strage l’ex questore Arnaldo La Barbera ci restituì la borsa di mio padre. L’agenda rossa non c’era più. Io mi lamentai della scomparsa e chiesi che fine avesse fatto. La Barbera escluse che ci fosse stata e mi disse che deliravo». A parlare davanti ai giudici di Caltanissetta è Lucia Borsellino, figlia del giudice Paolo, al quarto processo sulla strage di via D’Amelio che vede imputati i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta.
L’ex assessora alla Sanità ha precisato di «non sapere perché il padre usasse quell’agenda», o «cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro». Ma ha affermato che il giorno della sua morte ne era in possesso, come sempre. La teste ha ricordato il teso scambio di battute con La Barbera, che coordinò il pool che indagò sulle stragi Falcone e Borsellino. «Quando gli manifestai il mio fastidio – ha spiegato Borsellino – mi disse che avevo bisogno di aiuto psicologico». L’irritazione di La Barbera è stata confermata poco dopo in aula anche da Manfredi Borsellino, il secondogenito di Paolo e Agnese, sentito pure lui come teste della Procura: «Dopo la strage di Capaci – ha detto – mio padre usava l’agenda rossa in modo compulsivo. Scriveva costantemente. E si trattava sicuramente di appunti di lavoro e dell’attività frenetica di quei giorni. Mio padre, dopo la morte di Falcone, era consapevole che sarebbe toccato a lui e di essere costantemente in pericolo. Aveva l’esigenza di lasciare tracce scritte. Non poteva metterci in pericolo rivelandoci delle cose». Il figlio del giudice, oggi poliziotto, ha anche ricordato che «dopo Capaci mio padre aveva fretta di essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull’eccidio e non si spiegava perché non lo convocassero. Tanto che – ha aggiunto – in un’occasione pubblica fece un intervento con cui tentò, secondo me, di sollecitare una convocazione».
Lucia Borsellino ha raccontato di avere successivamente trovato a casa del padre un’altra agenda, di colore grigio, che consegnò all’allora pm di Caltanissetta Anna Palma. «Visto quanto accaduto nella storia di questo paese – ha aggiunto – chiesi che ne facessero delle fotocopie e che acquisissero quelle, ma che l’originale ci fosse restituito». Un altro importante passaggio della sua deposizione è dedicato all’ex capo del Ros, Antonio Subranni. Il quale, dopo aver appreso delle accuse che la moglie di Borsellino, Agnese, avanzava contro di lui, mise in dubbio le capacità mentali della donna da anni malata di leucemia. «Disse che aveva l’alzheimer – ha sottolineato Lucia Borsellino in aula -, ma non era vero. Mia madre è stata lucida fino alla fine». Agnese Borsellino, a distanza di 15 anni dal 19 luglio 1992, raccontò ai pm di Caltanissetta che il marito le aveva confidato di rapporti tra Subranni e la mafia. Sul motivo per cui abbia atteso così tanto tempo, l’ex assessora spiega: «Credo avesse paura di essere lasciata sola dalle istituzioni e che noi potessimo rimanere isolati. Ma col tempo si è sentita più libera e la sua sete di giustizia si è andata affermando sempre di più, anche perché le preoccupazioni nei nostri confronti si andavano attenuando».
Oggi in aula è stato sentito anche l’ex ministro della Difesa, Salvo Andò. «Vidi in aeroporto, a Roma, Borsellino dopo la strage di Capaci – ha raccontato ai pubblici ministeri -. Ci appartammo per parlare e io gli accennai alla nota del capo della polizia Parisi in cui si parlava di un rischio di attentati ai nostri danni. Lui, meravigliato, mi disse di non essere stato informato della vicenda». Andò aveva saputo da Parisi, allora capo della polizia, di un piano di attentati che avrebbe avuto come bersagli sia lui che Borsellino. Ma nessuno però avrebbe avvertito il giudice. Andò ha anche negato di avere mai avuto dai carabinieri del Ros richieste di supporto politico per contatti con esponenti di Cosa nostra. Sull’avvicendamento al Viminale tra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino, secondo alcune ipotesi investigative finalizzato a neutralizzare l’attività antimafia avviata da Scotti, Andò ha detto: «Scotti non mi ha mai detto nulla di ciò. Anzi quando si dimise da ministro degli Esteri non fece cenno a desideri di proseguire la sua azione, mi disse solo che, avendo la Dc posto i suoi davanti alla scelta tra la carica di parlamentare e quella di ministro, di avere optato per il Parlamento».
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