Statue dei Savoia in Sicilia: quale destinazione?

Si è discusso, solo un paio di settimane addietro, del restauro della statua equestre di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, a Palermo, in occasione delle ricorrenze per il 150° anniversario dell’unità d’Italia.

Ci siamo in parte già espressi sulla ‘questione risorgimentale’ – e molto altro poteva essere detto – all’interno dell’articolo sulla presentazione del nuovo libro di Pino Aprile, Giù al Sud, a Termini Imerese, quindi non vi ritorneremo. Concentriamoci, più che altro, proprio sull’utilizzo di un bene culturale all’interno di un tessuto urbano come quello di Palermo, e in particolar modo proprio sulle statue di sovrani e notabili che, da sempre, hanno occupato gli spazi della vita quotidiana delle nostre piazze, delle nostre strade e dei nostri giardini pubblici. Poche, ad oggi, sono le immagini scolpite dei sovrani che hanno riguardato la storia siciliana a comparire ancora sulle nostre piazze ma, buondio, è probabile che almeno gli studiosi o gli amatori di storia potessero essere almeno un po’ interessati a conoscere delle rappresentazioni materiali inerenti a determinati periodi del nostro passato, perché anche questo è un modo per conoscere, per studiare, per ricostruire. Ogni reperto materiale è un elemento, un tassello di un complesso mosaico che diventa ben più complicato da decifrare, se incompleto. E del vasto panorama storico, addentrandoci anche nell’ambito dell’archeologia, di tasselli ne mancano davvero parecchi, così tanti che le ricostruzioni storiche, come già discusso proprio sull’articolo riguardante Pino Aprile, non sono altro che vere e proprie costruzioni di edifici mutilati dall’insufficienza di mattoni, che prendono la forma dettata dal nostro modo di interpretare il mondo e la vita.

Così, Filippo V di Spagna si mostra ancora imponente sul monumento tra piazza della Vittoria e il Palazzo Reale di Palermo. Lo stesso fanno quelle di piazza Vigliena, nel Teatro del Sole dei Quattro Canti, rappresentanti Filippo II, Filippo III, Filippo IV e Carlo V. O ancora le pochissime statue di bronzo rimaste superstiti dall’abbattimento feroce delle rivoluzioni – quando i siciliani sapevano ancora scendere in strada per dimostrare il proprio reale dissenso – o dalla loro fusione per la produzione di cannoni, tra cui quella di Carlo V in piazza Bologni, ritratto nell’atto di solenne giuramento sui privilegi e costituzioni del Regno di Sicilia, regno che, sebbene parte di un più ampio ambito d’influenza, manteneva la propria autonomia governativa e legislativa, oltre che la propria corona – e forse è per questo che la statua in questione resistette ed è arrivata ad oggi.

In piazza Giulio Cesare si erge, dunque, la statua di Vittorio Emanuele II. Fino a qualche anno – forse mese – fa, quella statua è rimasta lì, quasi inosservata dai passanti, per circa 120 anni. Cosa è cambiato così di colpo, tanto da far scattare addirittura la proposta di toglierla da lì, se non addirittura di mandarla a Torino, quasi simbolicamente, come per rispedirla al luogo da cui è venuta? È cambiato il racconto storico di uno stesso avvenimento, e adesso è come se si trattasse quasi di due situazioni storiche diverse: quella del Risorgimento istituzionale, piena di supereroi pronti a salvare un’Italia volontariamente e fraternamente unita, tra scampanii, idilli e voli d’angioletti; e quella dei massacri, della costrizione ad un’unità non voluta se non dal 2% della popolazione italiana complessiva.

Ma ci si domanda: perché regalare ancora un nostro bene a chi di beni se n’è presi già in quantità, in 150 anni? La statua equestre di Vittorio Emanuele II è stata realizzata dal palermitano Benedetto Civiletti, autore verista, realizzatore delle sculture bronzee presenti tuttoggi sulla sommità del Politeama, di uno dei leoni del Teatro Massimo. È stata realizzata nel periodo di rinascita di Palermo e della Sicilia, in quel capoluogo che fioriva del Liberty, del Neogotico e del Neoclassico. Quella statua è palermitana come la mano di chi l’ha scolpita. È nostra: è la manifestazione di un periodo, sebbene ormai da molti rivalutato, che non può comunque essere dimenticato. E guai a dimenticarlo. Trovare un’altra sistemazione a statue come questa potrebbe, di contro essere una buona soluzione, per trovare il giusto compromesso tra il rispetto per il valore istituzionale del personaggio – abbiamo ancora negli occhi con non poche perplessità il saluto commosso di un presidente della Repubblica, completo di inchino, alla chiesa del Pantheon di Roma, innanzi alla tomba di un monarca sabaudo naturalmente antirepubblicano – e il nuovo livore che si è venuto a sviluppare in seguito ad una rilettura di determinati fatti storici, alla luce di documenti attestabili e da sempre, fino ad oggi, messi a tacere.

Il filosofo George Santayana – e lo stesso concetto è stato espresso da Primo Levi – affermava che “Chi dimentica il proprio passato è condannato a ricominciarlo”. Spedire con un bel francobollo a Torino le immagini storiche che vorremmo non vedere più equivarrebbe al seppellimento dissennato di un pezzo della nostra storia, bella o brutta, positiva o negativa che si ritenga. Dove sta scritto che ci si debba ricordare per forza soltanto delle esperienze positive della nostra vita? Piuttosto servono a vivere anche e, mi permetto di affermare, soprattutto quelle negative, per affrontarne in futuro sempre meno.

 

Lorenzo Mercurio

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