Sri Lanka, sepolta la memoria Tamil

Il Mavira Thuyillim Illam è un cimitero tamil e il nome significa Casa del Riposo dei Martiri. Nel 1995 lo Sla ne distrusse le lapidi, ma le Tigri riconquistarono la regione e risistemarono il cimitero. Lì sono sotterrati solo guerriglieri, oltre duemila. Ogni stelo d’erba, ogni forma di vita in quel cimitero sono nati dal sangue e dalle carni dei combattenti. Per il popolo tamil è un luogo sacro dal forte valore simbolico. Quasi tutti in quest’area hanno parenti, figli, fratelli, cugini sepolti in quel campo. A fine novembre di ogni anno ricorre il Giorno dei Martiri, in cui tamil da tutto lo Sri Lanka, anche chi non ha parenti sepolti al Mavira Thuyillim Illam, compiono un pellegrinaggio e una commovente veglia illuminata da migliaia di lampade a olio, una per lapide, per celebrare chi ha dato la vita per l’ideale tamil: uno stato libero e indipendente, non costretto a elemosinare infrastrutture e parità di trattamento.

Lasciamo la stazione degli autobus e imbocchiamo la Point Pedro Rd. Superiamo il Nalluk Kandaswamy Kovil dove ieri ho assistito a una lunga e istruttiva puja (rito religioso ndr) e percorriamo una lunga strada ai margini della parte più urbanizzata. Dopo un po’ realizzo che il driver sta girando in tondo lungo la strada. Una caserma, alcuni appezzamenti coltivati e un paio di abitazioni costituiscono l’alternativa a manghi, palme e banani. Ci risiamo, non è una novità neanche questa. Non sa neanche dove dobbiamo andare, ma intanto si è assicurato il cliente. Vediamo cosa si inventa adesso. Lo costringo a fermare due giovani lungo la strada. L’abbigliamento elegante mi fa pensare a persone che conoscono l’inglese e così è. In qualche modo mi spiegano che il driver non può andare vicino al Mavira Thuyillim Illam perché i militari non vogliono stranieri intorno e che lui rischia grosso se mi conduce lì. Per visitare il Mavira Thuyillim Illam bisogna raggiungere la caserma e lui ha paura dei militari. Riesco a rassicurarlo. Ripartiamo e ci fermiamo lungo la strada in corrispondenza della traversina che conduce alla caserma.

I militari stanno di guardia all’imbocco della stradina. Parlo col soldato, che dopo avermi osservato come fossi un marziano, viste le mie insistenze si decide a parlare via radio con le guardie in caserma. Un occidentale chiede di visitare la caserma. Lascio lì mia moglie e il driver in compagnia dei soldati e mi incammino. I cinquecento metri della traversa sono lunghissimi e per un po’ le sentinelle mi puntano coi loro fucili. Dopo un po’ all’unisono abbassano le armi. Mi rassereno e continuo lentamente e con le braccia larghe e bene in vista.

L’accoglienza è cordiale. Vengo perquisito e ricevuto dal comandante della caserma, che parla inglese. Mi chiede cosa faccia lì, la nazionalità, se sono un giornalista o un politico. Per distendere la tensione – soprattutto mia – rispondo e commento la fine della guerra. La domanda successiva è su come abbia raggiunto la caserma.

«Con un autobus» rispondo, ricordando gli occhi imploranti del driver quando mi sono avviato verso la caserma. «Qui non arrivano autobus». Il sangue mi si gela, ma riesco a rispondere senza indugi che c’è una fermata non lontana. Lui annuisce e a quel punto prendo l’iniziativa. «C’è un cimitero qui vicino… Un cimitero di guerriglieri tamil».«Un cimitero? Non ne so nulla, non mi risulta». «Sì, un cimitero di guerriglieri tamil, si chiama Mavira Thuyillim Illam» e gli mostro un documento come prova. È scritto in italiano. Prova a leggere, sorridiamo di fronte alle difficoltà linguistiche. «E perché lei è interessato a un cimitero tamil? Ci sono già tante tombe in giro».

Con tono più deciso, gli rispondo che sono interessato ai tamil quanto ai singalesi e che dopo aver visitato il sud e la Hill Country, desidero visitare la terra dei tamil, dato che il governo ha dato il permesso agli occidentali. «O forse non è così?». Tergiversa, mi chiede del Sud e della Hill Country, che non ho ancora visitato. Invento qualcosa e quando riprendo il discorso, per lui non cambia nulla. Lì non c’è alcun cimitero, ma solo una caserma. Chiedo di visitare la caserma, ma la risposta è identica alla precedente: ci sono tante caserme in tutto lo Sri Lanka, perché proprio quella? Meglio quella centrale del 51-esimo distretto, da cui dipendono tutte le altre. Quella è lontana e ormai mi trovo lì a Jaffna: mi piacerebbe visitare proprio questa in cui mi trovo. Il colloquio continua così per oltre un’ora sin quando il comandante non telefona alla centrale del 51-esimo spiegando la mia presenza. Al telefono parla in inglese: buon segno in termini di trasparenza, mi dico.

Dopo un po’ squilla il telefono e dall’altra parte arriva una raffica di domande: chi sono, da dove arrivo, estremi del passaporto, quali oggetti ho con me – già consegnati alla sentinella all’ingresso – e cosa voglio visitare di preciso. Altri venti minuti per elaborare le informazioni acquisite, dopo di che arriva la risposta: non posso visitare l’interno della caserma, ma posso percorrerne il perimetro. Me l’aspettavo. Ma il cimitero? Il comandante quasi si scusa, dicendomi che lui è solo un soldato e queste decisioni non dipendono da lui.

Il caldo umido è asfissiante e la luce del mezzogiorno accecante. Percorriamo i primi metri l’uno accanto all’altro: il comandante e tre soldati armati mi stanno appiccicati. Il muretto è basso e il comandante mi mostra gli alloggi, la palestra e il salone di ritrovo. Le aiuole fiorite e i vialetti separano l’un l’altro gli edifici dalle pareti in legno ancora linde e dai colori vivaci. D’altronde la caserma è certamente successiva al 2009, perché sino ad allora il territorio era controllato dalle truppe tamil, provo a spiegarmi mentre osservo un paio di militari al lavoro.

I tre soldati si attardano e noi due rimaniamo soli mentre il comandante mi indica la mensa. È l’ultima occasione. «Dov’è il cimitero?» gli domando a bruciapelo e guardandolo dritto negli occhi. «There’s no anymore», mi risponde a bassa voce continuando a passeggiare come se nulla fosse. Non c’è più. «L’avete raso al suolo? Avete distrutto tutte le tombe?» Non mi risponde e continua a camminare lentamente. «Ma quando è successo? La caserma è qui proprio per questo motivo?»

Mi porge la mano con la solita cordialità: «La visita è finita, mi lasci andare ai miei impegni» mi dice mentre inverte il senso di marcia eludendo ogni mia velleità di approfondimento. Con la stessa cordialità mi offrono un bicchiere d’acqua e mi rimandano indietro, questa volta senza puntarmi coi fucili.

A sera in albergo incontrerò due funzionari Onu che confermeranno le mie conclusioni: per cancellare un luogo dal forte valore simbolico, il cimitero è stato raso al suolo e vi hanno costruito una caserma per evitare i pellegrinaggi e il rinsaldarsi dello spirito indipendentista. Non so, non credo che la pace possa passare da azioni del genere. Credo che la conquista di quella caserma diventerebbe il primo obbiettivo della guerriglia tamil, se un giorno dovesse riprendere. Non del tutto immotivata è la decisione del governo sri-lankese, dal suo punto di vista.

Dal canto mio, consapevole di poter raccontare l’accaduto solo perché sono un occidentale, dedico questa pagine a tutti coloro che sono morti per un ideale di fratellanza, uguaglianza e libertà.

Peppe Sessa

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