Spigolando sulla trattativa tra Stato e mafia con Antonio Ingroia nelle vesti di avvocato. Ci sarà anche Giorgio Napolitano?

IN QUESTO PROCESSO SFILA LA POLITICA ITALIANA CHE NE HA COMBINATE DI TUTTI I COLORI. TRA EX MINISTRI, INTERCETTAZIONI TELEFONICHE CHE VANNO E VENGONO E TESTIMONIANZE VARIE VIENE FUORI LO SPECCHIO DI UN PAESE, IL NOSTRO, SEMPRE IN CERCA DI EVIDENTI VERITA’ NEGATE

Antonio Ingroia torna da protagonista nel processo Stato-mafia quale patrocinante di parte civile per conto delle famiglie delle vittime degli attentati criminali del 1992. Laddove il Consiglio superiore della magistratura non ha ritenuto di impiegare un magistrato di valore nella lotta al crimine organizzato, lo hanno fatto i cittadini. Il riconoscimento dei cittadini fa giustizia degli slogan interessati a denunciare le cosiddette ‘toghe rosse’. Cioè quei magistrati che conducono senza esitazione alcuna la loro professione, senza stare lì a soppesare l’importanza politica o sociale che i responsabili di reati, specialmente se questi hanno a che fare più o meno da vicino con la mafia.

Certo, non ha preso una buona decisione il Csm se in conseguenza di essa si è lasciato scappare un magistrato talentuoso come Antonio Ingroia dall’Ordine giudiziario. Di sicuro il Csm ha risentito parecchio il condizionamento del dibattito politico sui magistrati ed, in particolare, sulle ‘toghe rosse’.

I cittadini di Firenze, parenti delle vittime della strage di Via dei Georgofili, invece, hanno riconosciuto in Antonio Ingroia – che certamente non è l’unico avvocato disponibile nel mercato della professione forense – il migliore patrocinatore delle loro ragioni nel processo che si è aperto a Palermo, malgrado la stupida propaganda politica sui magistrati orientati politicamente, ed hanno scelto Antonio Ingroia. Il presidente dell’associazione dei Parenti delle vittime, Giovanna Maggiani Chelli, è presente al processo quale rappresentante di parte lesa.

Al processo è presente anche Salvatore Borsellino con una larga partecipazione delle ‘Agende rosse’.

Con riferimento al processo che si è aperto davanti alla Corte di Assise di Palermo e che nei fascicoli è intestato a carico di Bagarella+9 (tra questi Mario Mori, Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino), il relatore, Roberto Tartaglia, ha dichiarato che i Pubblici ministeri dimostreranno la ‘strategia stragista’ messa in atto da Cosa nostra all’indomani della definitiva sentenza della Corte di Cassazione sul maxiprocesso alla mafia, pronunciata il 30 gennaio 1992. Il maxiprocesso si era celebrato nell’apposita aula bunker realizzata in appendice al carcere dell’Ucciardone di Palermo e durato ben 23 mesi, dal febbraio 1986 ad dicembre 1987. La strategia stragista era stata ordita al fine di piegare lo Stato ad un maggiore rispetto dello ‘status’ dell’organizzazione mafiosa, attenuando il trattamento penitenziario.

I Pm – continua Tartaglia – dimostreranno che detta strategia aveva lo scopo di punire i loro principali nemici, cioè i magistrati più esposti nella lotta alla loro esistenza e – secondo ben 12 circolari del ministero degli Interni – quei politici che, oltre all’onorevole Salvo Lima, fatto fuori, rispondono ai nomi degli onorevoli Calogero Mannino e Carlo Vizzini ed, addirittura, a quello del presidente del Consiglio dei Ministri, Giulio Andreotti. E continua dicendo che “metterà in evidenza le pressioni con cui si è arrivati alla sostituzione alla direzione del Dap (l’apposito ufficio degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia del tempo) di Nicolò Amato con Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio”.

La pubblica accusa illustrerà, inoltre, le circostanze che hanno determinato l’avvio dei colloqui del Ros tramite gli ufficiali dei Carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno e il generale Mori con don Vito Ciancimino.

Queste ed altre circostanze saranno portate all’attenzione della Corte per dimostrare che la trattativa con lo Stato ci fu. Da parte sua l’altro pubblico ministero, titolare dell’inchiesta, Antonino Di Matteo nell’esprimere la sua tesi relativa alla trattativa dello Stato con la mafia fa riferimento ai 334 decreti del ministro pro tempore di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso. Decreti che abolivano il carcere duro (articolo 316 bis del Codice penale) per altrettanti detenuti di mafia.

Così come a suffragare l’accoglimento tacito degli accordi tra mafia e Stato ricorda i comportamenti del Ros, il raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, in un paio di circostanze. La prima avvenuta nell’aprile del 1993 quando si poteva arrestare il latitante Nitto Santapaola. In quella occasione si verificò un ingiustificato ritardo nell’intervenire e l’arresto venne vanificato; l’altra circostanza ebbe luogo in occasione di una segnalazione da parte del collaboratore di giustizia Luigi Ilardo che aveva segnalato la presenza di Bernardo Provenzano a Mezzojuso al colonnello Riccio e questi a sua volta ne aveva riferito agli ufficiali Mori e Subranni. Anche in questo caso Bernardo Provenzano ha potuto farla franca.

Il pubblico ministero Di Matteo, infine, chiede di ascoltare, in qualità di testimone, Giorgio Napolitano. La testimonianza del Capo dello Stato è ritenuta necessaria sia per le circostanze riguardanti gli addebiti rivolti all’ex senatore Nicola Mancino, imputato per il reato di falsa testimonianza e sia per la lettera a lui indirizzata dal suo ex consigliere per gli affari legali, Loris D’Ambrosio, deceduto lo scorso anno subito dopo il verificarsi di questi eventi. Nella lettera del 18 giugno 2012 il dottor D’Ambrosio lamentava il fatto di essersi trovato, suo malgrado, a recitare la parte dell’ingenuo e “utile scriba di cose utili a fungere da scudo di indicibili accordi”.

La testimonianza del presidente della Repubblica è ritenuta necessaria anche in ordine alla telefonata intercorsa il 5 aprile 2012 tra D’Ambrosio e Mancino, all’indomani della lettera inviata dal capo dello Stato al Procuratore generale della Cassazione con la quale venivano trasmesse le rimostranze sollevate per iscritto dall’ex senatore Nicola Mancino. Nel corso della telefonata il dottore D’Ambrosio dice che il Presidente concorda con le sue preoccupazioni che definiscono gli eventi che lo riguardano ‘inopportuni’.

Il terzo pubblico ministero, dottor Francesco Del Bene, circoscrive il suo intervento alle questioni che riguardano l’ex senatore Nicola Mancino rassegnando le ragioni che hanno indotto la Procura di Palermo ad accusarlo di falsa testimonianza. Secondo il Pubblico ministero, Nicola Mancino avrebbe detto il falso davanti al Tribunale di Palermo a proposito delle motivazioni che hanno portato all’avvicendamento con l’onorevole Vincenzo Scotti al ministero degli Interni nel giugno 1992 ed afferma che tale “avvicendamento sia avvenuto per dare un segnale politico di distensione”.

All’ex senatore è stato addebitato anche di avere negato di essere a conoscenza dei contatti “intrapresi dagli ufficiali dei Carabinieri del Ros, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino” ed inoltre per avere negato le lagnanze del ministro della Giustizia, Claudio Martelli, sull’operato non autorizzato dei Ros circa i contatti finalizzati a fermare le stragi di mafia senza darne conto né al Governo, né alla magistratura, né alla Dia, la Direzione investigativa antimafia.

Infine, il pubblico ministero Francesco Del Bene ha chiesto alla Corte di potere fornire al dibattimento la trascrizione di alcune intercettazioni telefoniche dei colloqui intercorsi tra l’ex ministro Mancino ed il consigliere Loris D’Ambrosio nelle quali è riportata la richiesta di Mancino di “condizionare le indagini che la Procura di Palermo sta conducendo a suo carico”.

Su tutte le richieste avanzate dai pubblici ministeri la Corte risponderà nell’udienza del prossimo 10 ottobre. L’udienza si è conclusa con un colpo di scena. Mentre si stavano per chiudere i lavori l’imputato-teste-collaborante, Massimo Ciancimino, chiede di potere rendere dichiarazioni spontanee per lamentare il fatto che, da quando ha iniziato a collaborare, è stato oggetto di minacce, anche nei confronti di suoi familiari. In particolare, in coincidenza delle sue comparizioni nei numerosi processi nei quali è coinvolto. Ciò avviene allo scopo di screditarlo. E conclude leggendo una lettera anonima che ha ricevuto il 27 maggio scorso nella quale è scritto che “solo noi possiamo proteggerti”, a condizione che smetti di parlare di trattativa. E continua affermando che in questo processo tutti i protagonisti, il presidente della Corte, il Gip e i pubblici ministeri, sono costantemente seguiti e sotto osservazione. Questo processo deve essere fermato.

Fin qui gli accadimenti nell’udienza di apertura dell’ennesimo processo alla mafia. Il nostro dovere è quello di riferire i fatti via via che accadono. Ma non possiamo esimerci dal fare qualche osservazione a margine di essi.

E’ trascorso ormai oltre mezzo secolo da quando, dicembre 1962, il Parlamento ha insediato la prima Commissione per lo studio del fenomeno mafioso in Sicilia. Da allora sono almeno una decina le Commissioni parlamentari che hanno studiato questo fenomeno ed è da allora che non si riesce a cavare un ragno dal buco.

L’unica circostanza nella quale si è assunto un provvedimento concreto è quella scaturita dalla relazione di minoranza preparata da Pio La Torre nel 1976, a chisura dei lavori della prima Commissione antimafia. Già allora l’esponente del Pci parlava di sequestro dei beni mafiosi e della loro confisca. Tesi che lo stesso La Torre riproporrà, da parlamentare nazionale, poco prima di tornare in Sicilia, da segretario regionale del Pci, nel 1981. Proposta alla quale tardivamente si aggiungerà la firma dell’onorevole Virginio Rognoni. La legge proposta da La Torre – sulla confisca dei beni alla mafia – diverrà tale (cioè aèèrpvata dal Parlamento nazionale) solo dopo l’uccisione di Pio La Torre, avvenuta il 30 aprile del 1982.

Detto questo, va aggiunto che, ogni volta che in qualche misura la Magistratura compie un atto risoluto, accade che nelle alte sfere avviene qualcosa che ne blocca gli effetti, talvolta per una virgola fuori posto nel testo di una sentenza che non viene ritenuta accettabile dalla Corte di Cassazione, qualche altra volta per un provvedimento preso in solitudine ed in assoluta autonomia da un ministro il quale decide di intraprendere contra legem provvedimenti tesi a mitigare le sofferenze carcerarie dei mafiosi faticosamente messi fuori dal circuito criminale. Ovvero si verificano ‘disattenzioni’ nel perquisire le dimore dei latitanti mafiosi, allorché vengono arrestati o si verificano ritardi nell’intervenire in occasione di possibili arresti di boss più o meno latitanti e via continuando. O, addirittura, a seguito dell’assassinio di un grand commiss di Stato, poniamo un Prefetto, il suo domicilio viene lasciato incustodito per giorni e giorni, laddove egli avrebbe potuto conservare documenti acquisiti in ordine al suo lavoro antimafia.

Niente, niente che la mafia gode di particolari protezioni nelle alte sfere statali, anch’esse indefinibili che, forse, sono al servizio di potenze straniere che si configurano come Spectre?

L’ultima nota di cronaca registra la posizione contraria degli avvocati di Palermo e di Roma circa la posizione del dottore Antonio Ingroia quale avvocato di parte civile. Incarico che lo stesso non potrebbe svolgere perché non ha prestato giuramento.

Dottore Ingroia dica lo giuro!

Riccardo Gueci

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