«Il lavoro è il miglior strumento di cura e riabilitazione per le donne che sono state vittime di violenza perché permette loro di conquistare autonomia e, quindi, di non essere costrette a tornare negli ambienti da cui sono riuscite a fuggire già una volta». Ne è convinto il presidente della cooperativa sociale Etnos di Caltanissetta Fabio Ruvolo che, da oltre dieci anni, si occupa di accogliere le donne vittime di violenza in tre case rifugio tra l’Ennese e il Nisseno e porta avanti progetti per l’inserimento lavorativo. «Solo nell’ultimo anno e mezzo, a usufruire delle borse lavoro sono state 40 donne», spiega Ruvolo a MeridioNews. Lo strumento è stato il progetto Rosa dei venti finanziato dal dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri che adesso, però, si è concluso senza che sia stata prevista una nuova attivazione.
Per questo Etnos ha lanciato un appello (anche attraverso una petizione su Change.org che ha già raggiunto quasi mille firme in due giorni) «non tanto per il progetto in sé quanto perché in generale siano senza scadenza e abbiano continuità», dice il presidente che, al momento, si è impegnato per portare avanti con le risorse della cooperativa – e l’idea di lanciare una raccolta fondi – gli undici tirocini già avviati e non ancora completati e per fare partire anche quelli della donne che hanno denunciato e sono state accolte nelle strutture protette più di recente. «Non potevamo permettere questa interruzione – afferma Ruvolo – perché abbiamo l’esperienza concreta per dimostrare l’importanza del lavoro come mezzo di riscatto, di indipendenza e di contrasto concreto alle violenze».
In una casa di riposo, in una macelleria, in diversi ristoranti e pizzerie, in un centro di estetica o in vari negozi di abbigliamento. «Per ciascuna delle donne accolte – spiega il presidente – i tirocini vengono strutturati in base a una valutazione su attitudini, capacità e desideri». Ed è alta la percentuale di quelli che poi si trasformano in un rapporto lavorativo duraturo. «È senza dubbio il modo migliore per le donne di riappropriarsi della propria vita – sottolinea Ruvolo – Per questo, è importante che le istituzioni proteggano questo strumento senza fare prevalere gli impedimenti della burocrazia». In effetti, la cooperativa avrebbe potuto ottenere una proroga del progetto provvedendo a presentare una richiesta entro un massimo di sei mesi. «Tra smart working e aziende chiuse per il lockdown, non avevamo contezza dei tempi precisi – dichiara il presidente – e, quando abbiamo presentato la richiesta, ci è stato risposto che non poteva essere accolta perché oltre il termine previsto».
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