«Erano in tre». Gregorio Signorelli parla, per la prima volta con dei giornalisti, con un filo di voce. Attorno al collo ha un rosario e le mani sono ancora sporche di terra incrostata. Ha 36 anni, tre figli ed è stato sottoposto a due delicati interventi chirurgici che gli hanno salvato la vita. Nel suo corpo, sono rimasti i pallini che i medici dell’ospedale Garibaldi di Catania non sono riusciti a estrarre. È l’unico dei ladri di arance sopravvissuto alla violenta reazione di Giuseppe Sallemi, da 14 anni guardiano di un agrumeto di contrada Xirumi – al confine tra i territori di Lentini e Scordia. I complici di Signorelli sono morti: erano il 47enne Massimo Casella e il 19enne Agatino Saraniti, anche loro originari di Librino. Tutt’e tre, disarmati, erano andati a «prendere arance» nella Piana di Catania. Ma si sono imbattuti nei custodi dei terreni. «Sono arrivati tutti insieme. Due con una macchina, un fuoristrada, e l’altro con un’Alfa Romeo. L’Alfa Romeo ci ha bloccato la strada, mentre i due sono scesi dalla jeep già armati». Quella notte, tra il 9 e il 10 febbraio, lui la ricorda nitidamente. Così come ricorda il rumore dei colpi di fucile che hanno ucciso Casella e Saraniti.
Dopo l’arresto di Sallemi, nei giorni scorsi è stato fermato anche il 70enne Luciano Giammellaro che, pur occupandosi del servizio di guardiania, ufficialmente risulta pensionato. Per gli inquirenti erano insieme e avrebbero sparato entrambi. Stessa versione fornita dal sopravvissuto in esclusiva a MeridioNews. Giammellaro, interrogato dagli investigatori, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Al contrario di Sallemi che ha, invece, fornito la sua versione. Sebbene quella storia in più punti non abbia convinto gli inquirenti e i magistrati. «Sallemi ha sempre dichiarato di avere agito da solo e di non conoscere le tre vittime – afferma l’avvocato Rocco Cunsolo, che lo difende – Dei presunti sms che avrebbe inviato a Casella, inoltre, non sono a conoscenza». La versione del guardiano vuole inoltre che lui, dopo gli spari, sia rientrato in macchina, abbia guidato per quattro chilometri, si sia fermato e poi si sia gettato in un fondo agricolo, esanime. Per riprendersi solo intorno alle cinque del mattino.
Del terzo uomo citato dalla vittima non ci sono ancora notizie né la sua presenza è stata confermata dalle forze dell’ordine che stanno continuando a indagare per fare luce sui contorni di questa complessa vicenda. Questo pomeriggio, nel frattempo, all’ospedale Cannizzaro di Catania si svolgerà l’incidente probatorio e saranno effettuate le autopsie sulle due vittime: come richiesto dalla difesa di Giuseppe Sallemi, saranno presenti anche i consulenti di parte.
Signorelli, quella sera cosa è successo?
«Siamo arrivati con un furgoncino. Non uno grande, uno tipo Fiorino, bianco e piccolino. Non so di chi era, ma non lo avevamo rubato. Eravamo andati con quello, tutti insieme, a raccogliere arance. Erano circa le dieci di sera. Guidavo io. Stavamo rubando arance, sì. Ne avevamo raccolte un cento, centocinquanta chili… Si faccia il conto: trenta, quaranta centesimi al chilo… Ma anche se fosse stato di più. Non è che ci puoi uccidere per questo. Altrimenti nel mondo ci sarebbe il far west, la polizia e i carabinieri non avrebbero senso di esistere».
Quando sono arrivati i tre?
«Due, tre ore dopo. Noi avevamo appena finito. Per primi sono arrivati i due guardiani insieme, in una macchina. Poi è arrivato il terzo, che ci ha sbarrato la strada con un’altra macchina. Uno ha sparato a me e a Massimo, l’altro invece ha sparato al bambino (Saraniti, ndr). Il terzo, quello che era in macchina, non ha fatto niente».
I due sono arrivati già armati?
«Sì».
Giuseppe Sallemi dice di essere stato minacciato e di avere sparato dopo una colluttazione.
«Lui non ha nemmeno un graffio. Adesso sta in carcere e deve pensare a cosa ha fatto. Se ci picchiavano, non lo tolleravo lo stesso, ma almeno erano schiaffi, un colpo di bastone, qualsiasi cosa. Poi però tornavamo a casa. Noi li abbiamo implorati, Agatino aveva 19 anni… Come fanno a chiamarla legittima difesa? Noi non abbiamo mai usato armi. Se io fossi stato uno di quei delinquenti, uno di quelli che usano armi, andavo a rubare arance? Uno che fa furti è un delinquente, lo so. Ma stavo rubando arance, di cosa stiamo parlando? Io mi merito di essere incriminato per questo. Noi abbiamo sbagliato, ma Massimo e Agatino non dovevano essere al cimitero e io non dovevo essere qua. Se uno deve morire per avere rubato arance, gli esseri umani non devono esistere più».
Lei è stato colpito prima degli altri due?
«Sì. Poi hanno sparato a Massimo, poi al bambino… Io ho detto “Mi hai ucciso”, avranno pensato che stavo agonizzando. È una sensazione che non si può descrivere. Non si vedeva niente, l’unica luce erano i fari della loro macchina puntati dove eravamo noi. Io mi sono trascinato fino all’altro ciglio della strada. Non so come ho avuto la forza, mi hanno trovato a 500 metri da dove ci hanno sparato. Non so cosa succede in questi casi, forse Dio. Avevo paura che mi cercassero. Poi ho chiamato mia moglie, le ho detto che mi avevano sparato e le ho spiegato come arrivare al posto. Menomale che la strada non è molto difficile e l’entrata del terreno è vicina alla statale. Quando sono arrivati, fortunatamente, mi hanno trovato subito: loro hanno acceso le quattro frecce e io ho fatto segnali con la torcia del telefonino».
A quel punto i guardiani erano già andati via?
«No, credo che siano scappati quando hanno visto arrivare le due macchine. Sentivo rumori tra le frasche».
Quindi sua moglie non è arrivata da sola?
«No. È venuta con i familiari di Agatino. Prima ha chiamato i soccorsi, ma non è venuto nessuno. Poi ha telefonato agli altri parenti e sono arrivati insieme, con due automobili. Gli altri mi hanno chiesto di Agatino e Massimo, ma io non sapevo niente. Sapevo solo che avevano sparato anche a loro e purtroppo ho immaginato».
Voi conoscevate i due che lavoravano come guardiani? Si è parlato di un messaggio che Sallemi (il primo ad essere stato arrestato) avrebbe inviato a Casella (la vittima di 47 anni) per dirgli che quella sera sareste potuti andare.
«Non ci sono stati messaggi, queste sono voci di popolo. Ma si saprà la verità, perché a Massimo il telefonino lo hanno trovato addosso e il mio lo hanno sequestrato. Questi guardiani noi li conoscevamo di vista, perché lì in zona transitavamo. Andavamo in diversi fondi a chiedere “Me le dai un po’ di arance?”. E ci davano il consenso di prenderle. Mai è successo che qualcuno ci ha nemmeno toccato con un dito. Ci era capitato di essere stati arrestati. Una volta il guardiano ci ha visto e ha chiamato la polizia. Io non sono scappato, anzi quando sono arrivati gli agenti ho aperto il cancello. Non mi hanno nemmeno messo le manette ai polsi perché sanno che non siamo un pericolo sociale. Mi hanno messo ai domiciliari».
Questi due guardiani, altre volte, vi avevano permesso di prendere delle arance?
«No, loro mai. Ma altri sì».
Perché hanno reagito in quel modo, secondo lei?
«Non lo so. Non c’è una logica. Speriamo che una cosa del genere non succeda mai più».
Con le arance, poi, cosa ci facevate?
«Le vendevamo noi stessi ai bordi delle strade e, qualche volta, ne vendevamo qualche cassetta ai fruttivendoli. Stiamo parlando sempre di 30 o al massimo 40 centesimi al chilo. Per favore, ditelo che non è plausibile quello che ci hanno fatto. Mentre loro ci tiravano il piombo, noi al massimo avremmo potuto tirare le arance».
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