Dei derby tra Catania e Messina conservo principalmente due ricordi. Due ricordi diversissimi tra loro, che mi mettono in cuore due diversissime nostalgie. Il primo ricordo ha il colore del sole: quello di un pomeriggio d’aprile del 1999, quando con i cugini dello Stretto ci giocammo la promozione dalla C2 alla C1. Vivevo lontano da Catania, in quegli anni, ma ci tornavo ogni volta che era possibile. E mi abbeveravo, ogni volta che era possibile, del prato verde del Cibali, del sole che ci batteva sopra, dei nostri colori che lo riflettevano dagli spalti dello stadio. Fu in mezzo a quel sole, in quello stadio, che al novantaduesimo minuto di gioco il generoso ma non raffinatissimo Alessandro Cicchetti – terzino che da quattro anni, con alterne fortune, batteva la nostra fascia sinistra – si avventurò fin quasi al fondo del campo, si inventò un paio di dribbling da sudamericano e infine pennellò il più perfetto e imprevedibile dei cross che fossero mai partiti dal suo piede. Un cross che incontrò, al centro dell’area, la testa del nostro centravanti Roberto Manca, un lungagnone sardo (neppure lui dotato di strabilianti qualità di palleggio), che quel giorno ebbe il merito di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, di incrociare la traiettoria del pallone nell’istante esatto in cui era necessario farlo. Il posto era il centro dell’area di rigore messinese. L’istante, quello immediatamente precedente allo scoppio di gioia del Massimino. La gioia incontenibile, innaffiata da quel sole, per un gol che significava per noi il ritorno in C1. Il ritorno – ottenuto risalendo dai gironi di basso inferno in cui ci aveva ingiustamente precipitato Matarrese – fin quasi alle porte del calcio che conta.
Vivevo lontano da Catania, in quegli anni. E i miei amici non catanesi non riuscivano a spiegarsi come mai continuassi ad appassionarmi a derby come quello col Messina e non mi dedicassi per esempio, giacché avevo l’opportunità di farlo, a quelli tra Roma e Lazio. Cosa potesse spingermi a percorrere in macchina, la domenica pomeriggio – il più delle volte in desolata solitudine – le strade che portavano ai campetti più sperduti del Lazio, dell’Umbria o dell’Abruzzo. Anziché accomodarmi (come forse molti miei concittadini avrebbero sognato di poter fare) in tribuna Tevere o Monte Mario a rifarmi gli occhi con la serie A. Men che mai riuscivano a spiegarsi un dato riportato dai tabellini di quella partita di serie C2: e cioè il fatto che, nello stesso bagno di sole in cui Manca segnò il gol della vittoria, fossero immersi non meno di ventiduemila spettatori. Ventiduemila: un numero che perfino nella capitale, associato al concetto di serie C2, descriveva un rapporto tra la città e il calcio, tra la città e la propria squadra, che ha pochissimi eguali in giro per il Paese.
E poi c’è il secondo ricordo. Nel quale non c’è sole, ma solo le luci notturne dello stadio. E non la gioia pura e innocente di un gol, ma solo rabbia e senso di ingiustizia. Durante un derby di serie B giocato nel 2003, il nostro centravanti Lulù Oliveira si trovò a correre solo verso l’area di rigore del Messina. A farglisi incontro fu il portiere giallorosso Storari, il quale, senza fare complimenti, lo abbattè rudemente al limite dell’area, con la più classica uscita da cartellino rosso. Incredibilmente, inspiegabilmente, l’arbitro non vide quel fallo così plateale. E non era mica un arbitro scarso: si trattava di Gianluca Paparesta, lo yuppie delle giacchette nere, considerato da tutti un lusso assoluto per una partita di serie B. Ora, a prima vista, non ci sarebbe ragione per fissare nella memoria quello che appare un occasionale errore che può essere commesso da qualsiasi arbitro. Se non fosse che Paparesta, anni dopo, sarebbe finito nell’inchiesta di Calciopoli sulla subalternità degli arbitri a Luciano Moggi. Se non fosse che le successive, trionfali cavalcate del Messina in serie B e in serie A – cavalcate accompagnate da un numero impressionante di rigori a favore dei giallorossi di espulsioni di giocatori delle squadre loro avversarie – si sarebbero svolte giustappunto sotto la benedizione della famiglia Moggi. Se non fosse insomma che i derby tra Catania e Messina rappresentavano in quegli anni, perlomeno ai miei occhi di tifoso un po’ fazioso, il confronto tra due mondi diversi: quello di una squadra, la nostra, che completava la sua risalita dai dilettanti senza padrini potenti e, anzi, con la malcelata ostilità dell’establishment del pallone; e quello rappresentato dalla famiglia Moggi e dalla sua Gea. Non ci sarebbe ragione di ricordarsene, insomma, se in quell’immagine non si trovasse ancora qualche frammento di innocenza. Quel po’ d’innocenza, almeno, che si può tirar fuori da una sfida in cui, negli anni precedenti, la rivalità si era accesa sempre più spesso di violenza. E un giorno si era perfino colorata, sulle tribune dello stadio di Messina, dell’assurdo e scandaloso colore della morte.
Ho nostalgia soprattutto di quel derby risolto da Manca sedici anni fa, di quel derby immerso nel sole. Ma mi manca pure quel residuo d’innocenza che, anche in tempi più recenti, ci faceva sentire diversi, nonostante tutto diversi, dal calcio rappresentato da Moggi.
Prima che la famiglia Moggi arrivasse anche da noi. Prima che ci regalasse un direttore sportivo come Delli Carri. Prima che da Catania partissero i treni del gol, portandosi via quel che restava della nostra innocenza.
Mi preparo a guardarmelo su Internet, il derby tra Messina e Catania. Sapendo che, di certo, non me ne ricorderò per il sole.
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