Per la cocaina la ‘ndragheta la faceva da padrone. Erano le famiglie calabresi a dettare le regole. E Cosa nostra palermitana si adeguava. Perché la Calabria da tempo, spiegano gli investigatori, è diventata un punto di riferimento del narcotraffico in tutto il modo. Fiumi di droga che inondano l’Europa e che arrivavano nel capoluogo siciliano pronti per servire le principali piazze cittadine. È uno dei retroscena dell’operazione “Andreas” (chiamata così perché uno dei pusher arrestati somigliava al calciatore tedesco della nazionale Brehme), eseguita dalla sezione Antidroga della Squadra mobile di Palermo.
Dieci i provvedimenti restrittivi, emessi dal gip su richiesta della Dda del capoluogo. Ai domiciliari finiscono: Salvatore Coppola 39 anni, Giuseppe Lombardo 33 anni, Benedetto Graviano 24 anni, Antonio Augello 39 anni, Mario Iannitello 54 anni. Obbligo di dimora invece per: Salvatore Provenzano 45 anni, Antonio Tola 23 anni, Gaspare Corso 44 anni, Danilo Monti 30 anni, e Giovanni Bronte 43 anni. Le indagini, avviate nell’ottobre del 2011 e durate un anno, hanno permesso di scoprire «un vero e proprio network di spacciatori più che organizzazione» hanno spiegato gli investigatori, durante una conferenza stampa convocata per illustrare i dettagli dell’operazione.
Ma il blitz conferma soprattutto un’intensa attività di spaccio nella zona della movida cittadina. «Rappresenta un fenomeno trasversale – ha detto il questore, Guido Longo -. Hashish e cocaina vanno per la maggiore e il consumo è diffuso in tutte le classi sociali e d’età: dagli studenti ai professionisti». Di più. Secondo Longo, quello dello spaccio di droga rappresenta un affare che interessa «tutti i quartieri cittadini nessuno escluso».
«Le dosi da confezionare – ha spiegato Antonino De Santis, capo della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile – erano 10mila e i prezzi variavano in base al tipo di droga e al principio attivo». Così per una dose di hashish si potevano pagare dai 5 ai 10mila euro, per avere invece la cocaina occorreva spendere dai 50 ai 100 euro. Per indicare la sostanza stupefacente gli indagati utilizzavano un linguaggio in codice: così di volta in volta veniva indicata come «cassette di frutta» o «biada».
Seguendo i pusher gli agenti hanno scovato così due piantagioni: a Monreale e tra Vicari e Campofelice di Fitalia: 5mila piante in tutto. «Si trovavano in zone impervie, difficilmente raggiungibili e sorvegliate giorno e notte da sentinelle» ha spiegato Stefano Sorrentino, capo dell’Antidroga. I sequestri risalgono a giugno e settembre del 2012. Un “intoppo”, che spinge la banda a chiedere aiuto a Catania, per far arrivare nel capoluogo siciliano la droga da immettere sul mercato. I telefoni sotto controllo fanno il resto e consentono agli investigatori di mettere le mani su un bottino di 60 chili di marijuana, 2,5 chili di hashish e 100 grammi di cocaina.
Ma le indagini hanno permesso ancora una volta di accertare l’interesse di Cosa nostra per l’attività di spaccio. A capo della rete ci sarebbe Giovanni Bronte, ritenuto dagli investigatori appartenente alla famiglia mafiosa di Porta nuova. Sarebbe stato lui a gestire tutta l’attività nel quartiere di Ballarò. Dietro la copertura di una ben avviata attività di vendita di frutta e verdura. Era quella la centrale operativa dello spaccio.
«Si occupava soprattutto del “commercio di marijuana e hashish” – spiega Sorrentino – utilizzando pusher, che pagava spesso con la cessione di dosi di droga». I suoi uomini erano Antonino Augello e Benedetto Graviano, finiti ai domiciliari. Obbligo di dimora, invece, per Danilo Monti, 30 anni, per gli investigatori era un sorta di tutto fare della famiglia Giaconia, l’uomo su cui i boss potevano contare in qualsiasi momento.
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