Dopo oltre 500 anni Palermo torna ad avere una sinagoga. Un messaggio di accoglienza di cui la città, quest’anno Capitale della cultura, si fregia da tempo. Ma quali sono e dove sono visibili le radici della cultura ebraica che hanno resistito fino ai giorni nostri? Lo abbiamo chiesto al Rabbino Pierpaolo Pinhas Punturello, responsabile di Shavei Israel per l’Italia e nominato recentemente consulente dal Comune anche se per ufficializzare la cosa «manca la controfirma del sindaco anche se credo che non ci saranno problemi», spiega.
Un luogo, quello dove sorge ora la Sinagoga, scelto non a caso. Al di sotto di via Maqueda si trovavano i quartieri ebraici della Guzzetta e della Meschita, dove si possono ancora trovare alcune caratteristiche dell’edilizia ebraica come i passaggi ad arco. Meschita è il nome con cui i cristiani chiamavano qualsiasi edificio sacro di altra confessione religiosa. Oggi esistono nel capoluogo regionale, ma anche in altre realtà siciliane come Catania e Siracusa, nuclei di comunità «elementi che definirei in ebraico: garin, ovvero piccoli semi di comunità. Si tratta di presenze ebraiche che sono ritornate in Sicilia negli ultimi settanta o ottanta anni o siciliani di origine ebraica che stanno scegliendo la strada di un responsabile ritorno alle proprie radici. Sostenere e curare questi semi segnerà il futuro stesso delle comunità ebraiche di Sicilia. Ad ogni modo nulla può essere paragonato alla vita degli ebrei di Sicilia prima del 1493, anno della cacciata dall’Isola: la popolazione ebraica prima di questa infame data era enorme, quasi un palermitano su tre era ebreo, lì dove la presenza ebraica era assolutamente figlia felice del proprio territorio. Basta passeggiare per via Calderai e rendersi conto di quanta eredità culturale, sociale e professionale gli ebrei abbiano lasciato a Palermo ed in Sicilia».
Da più di quattro anni, insieme al gruppo ebraico palermitano, il rabbino è al lavoro su più fronti affinché rinasca una comunità a Palermo. «Se da un lato mi sono occupato di un ruolo tecnicamente rabbinico e quindi rivolto alla comunità nei suoi bisogni cultuali – sottolinea – dall’altro abbiamo offerto alla città e, se vogliamo, alla Sicilia tutta, momenti di riflessione, di cultura, di impegno affinché l’identità ebraica torni ad essere, come in passato, una delle identità fondanti del dna culturale ed antropologico di Sicilia. Penso per esempio a momenti come l’accensione pubblica della Channukkià a Palazzo Steri o le celebrazioni del 12 gennaio presso l’Archivio Almejda».
Un giorno, quello del 12 gennaio che ha un valore molto forte per la comunità ebraica che torna a riunirsi nell’oratorio di Santa Maria del Sabato dopo centinaia di anni da quel decreto di espulsione firmato dai sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella: «I locali sono stati simbolicamente dati in comodato d’uso – afferma – nel giorno di un addio e di una cacciata e giorno di un simbolico ritorno. Se da un lato questo luogo di culto segna il ritorno ufficiale degli ebrei a Palermo dall’altro non credo sia un evento solo ebraico, bensì un momento per tutta la città, un momento che segna il ritorno di una parte della cultura palermitana a casa. Se come è vero che nel simbolo di Palermo città della cultura compare anche una P in caratteri ebraici, questo è il segno che il nostro lavoro sta funzionando e che una delle P di Palermo è una P ebraica».
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