Sharks Palermo, Albanese dalla regia alla presidenza «Chi pratica uno sport minore lo fa solo per passione»

Abbiamo raggiunto il nuovo presidente degli Sharks Palermo, Alessandro Albanese, e con lui abbiamo ricordato gioie e dolori delle ultime stagioni. L’ex quarterback e vice presidente raccoglie il testimone, dopo 14 anni, da Massimiliano Lecat. Albanese intende proseguire sul sentiero tracciato dall’ex presidente, che commenta così la nuova avventura del collega: «Per fare il presidente di una squadra di football a Palermo non ci vogliono solo preparazione, cuore, sacrificio e visione, ma hai soprattutto bisogno di una grande dose di follia e ad Alessandro Albanese la follia non manca di certo».

Partiamo da quel magnifico 9 luglio 2016, una stagione perfetta conclusa – da imbattuti – con la vittoria del titolo di III Divisione: secondo la tua visione da quarterback qual è stato l’elemento tecnico che ha permesso questo successo?
«In modo molto schietto, credo che quell’anno la nostra rosa era di un’altra categoria rispetto alla media della terza divisione. Eravamo completi e numerosi in ogni reparto e c’era molta competizione già tra compagni di squadra per giocarsi un posto da titolare. Quello stesso team avrebbe tranquillamente conquistato un posto ai playoff di seconda divisione come ha dimostrato, nonostante il ritiro di molti giocatori nei tre anni successivi. Quello del 2016 era un ottimo gruppo, ben allenato e con una voglia matta di stupire l’Italia».

Passiamo all’anno successivo, quello del ventennale. Cosa vi ha impedito di duplicare il successo? Appagamento, stanchezza o una strategia errata?
«Provo a partire da lontano. Nel 2010 gli Sharks hanno espugnato in semifinale di seconda divisione il campo dei Guelfi Firenze, allora imbattuti in campionato. Mi sembra addirittura che fossero imbattuti in casa da molti anni. Siamo arrivati noi, dopo una trasferta logisticamente impegnativa e con un roster di 24 persone, li abbiamo battuti e siamo andati in finale. Sono sempre stato convinto che quella partita, se la giocassimo altre dieci volte, la vincerebbe Firenze, che sulla carta era più forte. Non sempre però sono i più forti a vincere le partite».

E contro i Sentinels?
«Contro i Sentinels è successa più o meno la stessa cosa. Sicuramente la logistica non ha aiutato. Giocavamo a 1500 km da casa contro i 190km loro. La trasferta è stata massacrante, con sveglia alle 4 del mattino per andare in aeroporto e il team diviso in cinque voli che arrivarono in ben quattro città diverse. Siamo arrivati in campo poco lucidi e abbiamo regalato un tempo. Poi siamo entrati in partita, abbiamo iniziato la rimonta, ma non è bastato. Bravi loro, hanno meritato la vittoria».

Avete anche avuto modo di calcare il campo del Renzo Barbera. La SSD Palermo, pur partendo dalla serie D, ha un trattamento pari alla serie A, mentre Sharks, Telimar, Sicily By Car – che pure hanno raggiunto livelli sportivi eccellenti – vengono sempre viste come squadre minori.
«Faccio una riflessione più lunga: lo sport secondo me è diviso in due. Da un lato abbiamo lo sport a trazione economica e dall’altro quello a trazione emotiva. Le differenze sono enormi, ma aiutano a capire la vera e unica differenza tra sport cosiddetti maggiori e minori. Piaccia o no, il calcio rappresenta lo sport italiano per eccellenza. È un tutt’uno con la cultura italiana da più di 100 anni e per questo motivo il team rappresentativo di una città è in maniera indissolubile legato al popolo. Che si sente rappresentato in maniera viscerale dalla squadra di calcio che a sua volta determina, attraverso i risultati, l’umore del tifoso nella sua quotidianità. Questo rapporto calcio-città, società sportiva-popolo, ha creato un bacino di utenza enorme, che nei decenni ha trasformato questo sport in opportunità di lavoro per tutti: giocatori, allenatori, professionisti, sponsor, quotidiani e media. Non c’è da stupirsi quindi che il calcio sia sempre in prima pagina».

E per quanto riguarda i cosiddetti sport minori?
«Sono trainati invece dagli sportivi e non dagli imprenditori. Chi pratica uno sport minore non lo fa mai per un interesse economico, ma per l’essenza dello sport: la passione. Non importa la divisione in cui giochi, l’attenzione dei media, gli articoli di giornale, se il campo dove ti alleni è in erba sintetica o in terra battuta, se abbia gli spogliatoi con l’acqua fredda o calda e se durante le partite ci sono solo 300 persone sugli spalti. Lo sportivo minore è soddisfatto allo stesso modo. Per quanto siano due modi di vedere e fare sport diversi fra loro, credo fermamente che entrambi dovrebbero trovare un punto d’incontro. Le realtà minori dovrebbero sforzarsi di strutturarsi un po’ di più per creare opportunità di lavoro, occasioni di visibilità che possano attirare più persone e creare quindi un bacino di utenza interessante per sponsor e media. Per il calcio il discorso è un po’ più complesso, perché i tifosi vogliono vincere, vogliono che la squadra sia competitiva, non si accontentano di partecipare o di giocare. Questo porta le società calcistiche a iper-strutturarsi e a diventare aziende. Riguardo la SSD Palermo, posso dire che sono contento di vedere un palermitano appassionato come Mirri alla guida, perché sta riuscendo a riaccendere la luce su una realtà calcistica come quella palermitana senza i grossi nomi e i grossi palcoscenici».

Antonio Melita

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