Sgarbi al Bellini, la Vedova non è poi così allegra Costumi low cost, eppure il pubblico è entusiasta

Accolta dall’osanna delle grandi testate e dal plauso del grande pubblico, la Vedova allegra, andata in scena questa settimana al Bellini, di grande non ha in realtà granché. Se non forse la risonanza di un nome. Uno di quei nomi così spesso pronunciati e così spesso sentiti che non ci si meraviglierebbe a saperli sciupati: quel nome è (e già si usurano i tasti che lo stanno per battere) Vittorio Sgarbi.

Vittorio Sgarbi e la politica: si sa. Vittorio Sgarbi in televisione: come il pane a tavola. Vittorio Sgarbi e l’arte (dell’insulto): un classico. Vittorio Sgarbi in città: ormai da qualche anno. Vittorio Sgarbi e l’opera lirica: anche questa? Sì, anche.

Certo, non di opera lirica schietta si tratta. C’è anche tanta politica (che sia libera iniziativa del Teatro o che l’ormai assessore regionale ci abbia messo lo zampino) nel nobilissimo intento pedagogico di aprire le porte del Bellini alla città tutta: sessanta biglietti gratuiti sono stati messi a disposizione degli studenti universitari, la prima è stata trasmessa in diretta sul megaschermo di piazza Università, la stessa scelta della Vedova allegra si presta per amabilità a incontrare i gusti di un pubblico vasto.

Il genere dell’operetta – che si differenzia dall’opera per l’alternanza di parti dialogate e cantate – ebbe infatti un successo esplosivo col nascere della belle époque, di cui soddisfaceva la brama tutta borghese di luccicanti frivolezze. Esili trame, fatui amori, e una recitazione in falsetto sono il vacuo fondale sulla cui superficie emerge la vita dei salotti, un lucente pacchetto di canti e balletti, lustrini e belletti, ventagli e sottane da can-can. Insomma, un bel regalone natalizio pacchiano sotto l’albero dei catanesi.

Uno sfarzo che quanto più è eccessivo tanto può essere eversivo, se riesce a implodere per superfetazione. Lo spasso, per lo spettatore d’oggi, dovrebbe consistere proprio nell’incrinarsi del frivolo in farsesco, per effetto di sapienti contrappunti nella recitazione. Ma la recitazione ordita da Sgarbi non ha nulla di contrappuntistico. Nonostante i talenti a disposizione (Cristina Baggio, Saverio Pugliese, Leslie Visco), le risate sono state strappate soprattutto dagli inserti dialogici di comicità all’italiana (quando non alla siciliana) – con tutto il repertorio di corna e malintesi del caso – di un delizioso Tuccio Musumeci nel ruolo di spalla del cancelliere Njegus.

D’altronde, come può incrinarsi il frivolo, senza l’eccesso? Su cosa può implodere una scena spoglia, se sfarzo non c’è? Se la scenografia è stata ridotta ad alcune proiezioni di fondali liberty, il debosciato corpo di ballo all’osso, le ballerine di can-can in poverissime minigonne? Di sicuro per i costumi, come per le scenografie, si è puntato sul risparmio, dato che le parche fanciulle del postribolo Chez Maxim apparivano ben meno volgari delle dame protagoniste, la cui classe parigina è andata dispersa sotto lo spacco (non proprio fin de siècle) delle gonne.

Eppure il pubblico è riuscito a spassarsela. Certo, grazie alla vis comica di Musumeci. Ma anche perché non sapeva cosa si sarebbe meritato di trovare sotto l’albero.

La spenta Vedova allegra di Sgarbi, insomma, sotto i riflettori non luccica, le sue arie e i suoi duetti non si sentono quasi nemmeno. Si sente solo lo scroscio di applausi di un pubblico pescato col rampino, luccica soltanto il nome di Sgarbi. E quando in ginocchio sotto l’albero spacchetti l’incarto, non è oro quel che trovi.

Andrea Tisano

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