’Serve la forza di riconoscersi donne’

Quando si legge, bisogna sempre porsi delle domande. Io racconto, poi sta a voi leggere e pensare”, così Beatrice Monroy spiega il suo mesteriere, quello della narratrice.
La scrittrice palermitana porta i suoi lavori in radio e in teatro, ma coltiva anche l’arte del raccontare storie scritte da altri, così come lei le ha lette e interiorizzate, “così come sono piaciute a me”, dice. Non intende sostituirsi alla lettura del libro, ma anzi invogliare, con il racconto della storia, la critica letteraria e l’emozione della voce e del corpo.

Nei giorni scorsi la Monroy ha letto “Artemisia” di Anna Banti, durante i due incontri all’Università di Catania organizzati dall’UDI – Unione Donne in Italia – per la campagna “Stop al femminicidio”.
In questa intervista a Step1, Beatrice Monroy ragiona con noi sull’attualità e il messaggio del romanzo.

La storia di Artemisia, struprata durante l’adolescenza e, da quel momento, alla ricerca della sua dimensione di donna tra normalità e talento per l’arte, nonostante i trecento anni trascorsi, sembra contemporanea. In cosa sta, secondo lei, la sua attualità?
Al di là delle cose evidenti, come la violenza subita da Artemisia, l’attualità secondo me sta nella difficoltà che le donne incontrano nel realizzare il proprio talento. Artemisia è una donna che si batte per riuscire ad essere sé stessa, lottando continuamente con un senso di colpa che noi donne abbiamo sempre dentro: ci sembra quasi che quando facciamo qualcosa per l’esterno, la facciamo contro il nostro destino di donne. Quando invece è possibile farle entrambe.

E cosa invece è cambiato, oggi?
Qualcosa è certamente cambiato. Lei era una condannata, senza nessuna possibilità, invece noi no. Per fortuna! Noi siamo molto più avanti, e voi giovani ancora di più: avete una grandissima forza. Io ho cinquant’anni e la mia generazione non era ancora così: voi siete molto coscienti, e mi sembra che Artemisia potrebbe prendere una bella lezione da voi!

Artemisia cercava, pur non riuscendoci, un modello di donna che fosse al di là degli stereotipi. Oggi, secondo lei, è possibile essere donne senza aggettivi?
Ogni volta per ciascuna di noi è una bella battaglia, una bella scommessa, ma credo che sia possibile oggi. Nel libro vi sono molte figure di donne che Artemisia cerca di copiare, ma in cui in effetti non si riconosce. Tranne la Spinola, la donna di Genova, che è un personaggio molto forte, anche un po’ maschile se vogliamo, che fuma la pipa… Lei è l’unica che Artemisia riesce ad accettare. Ma oggi è diverso: noi ci troviamo, magari con difficoltà, soffrendo, però ci troviamo.
E questo fa una grande differenza.

Tutte le figure maschili della vita di Artemisia sono negative, perchè in qualche modo la fanno soffrire: Agostino che la violenta, il padre che si vergogna di lei, il marito Antonio che la abbandona. Spesso passa il messaggio che nell’ottica femminista l’uomo sia sempre il nemico. Si tratta di un clichè?
E’ vero che questo romanzo, da questo punto di vista, è un po’ datato. Anna Banti, infatti, fu considerata una proto-femminista dal movimento degli anni ’70, i miei anni, in cui c’era una scissione netta tra il maschile e il femminile. Ed è una cosa che notoriamente non ha portato a niente, solo molto dolore e molte sofferenze. Penso che il gioco stia tutto nelle mani delle donne: con meno rivendicazionismo, ma più forza semplice. Il destino è nelle vostre mani di giovani, più che nelle nostre, che abbiamo fatto un sacco di pasticci…

A proposito di pasticci. Se le donne hanno una colpa, per la loro attuale condizione, qual è?
Direi una colpa che poi non è neanche tanto tale: quella di adeguarsi ad un modello maschile, senza capire che invece la differenza è una grande risorsa, e bisogna avere la forza di riconoscersi donna, che non è facile.

Cosa vorebbe trasmettere alle giovani con la lettura di “Artemisia”?
Proprio l’idea che devi centrare il tuo “io” di donna. E’ come in tutti gli aspetti della società, dove non ti puoi aspettare niente dagli altri: le cose devi cercarle dentro di te. Questa storia, come la racconta Anna Banti, è una grande lezione per imparare a guardarsi dentro, cosa che Artemisia non sa fare. Lei non si sa guardare dentro: quando il padre muore, lei muore e quando Antonio la lascia, si sente nulla. Quando il maschio non c’è più, lei vuole morire: non capisce che invece quello è il momento in cui dovrebbe cominciare a vivere, diventare un’altra cosa.

Benedetta Motta

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