Sergio Cammariere, un improvvisatore di emozioni

Ieri sera sul palco del Metropolitan in uno scenario suggestivo protagonista è stata la melodia. Cammariere e la sua “famiglia”, così definisce la sua band, si esibiscono in una penombra che fa vibrare ancora di più i ritmi della loro musica, il timbro della sua voce inconfondibile e l’assolo di ciascuno dei degni componenti dell’orchestra. Presentano l’album “Il Pane, il Vino e la Visione” insieme a qualche brano storico, alla celeberrima “Tutto quello che un uomo”, alla preghiera “Padre della Notte”, alla dedica a Bruno Lauzi con la sua “Ritornerai” e a due pezzi su richiesta, “Paese di goal” e “Vita da artista” in omaggio all’Italia. Distinto, elegante, scherzoso, ci accoglie nel suo camerino per una breve intervista.

 

Ti hanno definito spesso il nuovo Paolo Conte, ma se tu dovessi dare una definizione di te stesso cosa diresti?

Beh, io direi innanzitutto che Paolo Conte è il più grande cantautore che abbiamo in Italia e riconosciuto nel mondo. Ma nonostante questo, non è mai stato un mio punto di riferimento perché io ho attinto dalla scuola genovese, quella classica di Bindi, Paoli, Lauzi, Tenco, Endrigo, De Andrè. Spesso mi accostano a lui, ma io non conosco la sua musica! Però abbiamo in comune il fatto che siamo dei musicisti che suoniamo uno strumento.. In Italia non abbiamo mai avuto una tradizione di pianisti cantanti. Negli anni ’60 c’erano dei grandi pianisti in tv quando la televisione era in bianco e nero che si chiamavano Enrico Simonetti o Pino Calvi, però pianisti che veramente cantavano anche e suonavano bene il piano ce ne sono stati pochi. Quindi il riferimento a Paolo Conte va letto in questa ottica: come musicista che suona bene il pianoforte.

 

Cosa è cambiato in te da quel 1997 in cui sei stato insignito del “Premio Tenco”?

Tante cose… perché quella volta mi diedero una borsa di studio di dieci milioni, come “Miglior Emergente Esecutore e Interprete”, che mi servì per continuare a scrivere canzoni e a credere nel mio progetto. Poi sono arrivati tanti altri premi e finalmente il produttore Biagio Pagano, persona stupenda, un angelo, che mi ha tirato fuori dall’anonimato, quando ero ancora un autore di nicchia e suonavo nei club in giro per l’Italia ma non accadeva un granché. Quindi registrammo il mio primo album “Dalla pace del mare lontano” in una settimana perché le canzoni ce le avevo da dieci anni e le suonavamo in giro da circa cinque. È stata una fotografia, quel disco è rimasto un po’ storico, così immediato rispetto ad altri miei album che sono più ragionati, con più arrangiamenti, l’orchestra.

 

Qual’è stato un evento fondamentale nella tua carriera artistica che ti ha cambiato la vita?

Sicuramente è stato il Festival di Sanremo, quando Pippo Baudo mi ha dato la possibilità di esibirmi da “big” e di cantare una canzone al momento giusto.“Tutto quello che un uomo”  è piovuto dal cielo ed è entrato nel cuore delle persone. Pensate che con quella canzone tanta gente si è innamorata, spostata addirittura. A proposito vi racconto l’aneddoto di due ragazzi (lei di Palermo, lui Torino), membri del forum sul mio sito www.situation.it , tra i 400 iscritti che parlano della mia musica, sanno tutto di me, si incontrano in chat e si conoscono meglio.. beh, dopo qualche tempo mi hanno inviato l’invito al loro matrimonio! E questo grazie anche alla magia della mia canzone, una panacea anche per tanta gente che soffre per svariati motivi e si rasserena con essa. A me fa molto piacere, c’è uno scambio diretto con i miei fan che ormai sono “amici”, perché fanno parte della mia grande famiglia. C’è addirittura chi ha visto più di 40 concerti di Sergio Cammariere perché sa che ogni volta è una festa, cambiamo le scalette, il modo di suonare, l’intenzione. Gli iscritti alla mia mailing list possono avvertirmi della loro presenza e io gli fornisco un pass speciale per venire in camerino a firmare autografi, scattare foto, scrivere dediche e continuare a “dare”.

 

Hai già citato qualche grande nome della tradizione cantautoriale italiana degli anni ‘50-‘60, ma a chi ti ispiri?

L’ispirazione è qualcosa che fa parte dell’ascolto. Quando io ero bambino, a 7 anni, ho cominciato a suonare nel coro la melodica soprano, uno strumentino a fiato su due ottave, insomma una specie di giocattolo. Da lì a pochi mesi ho trasposto tutto ciò che avevo capito su un altro strumento, il pianoforte, cominciando quindi a suonare nelle Chiese e poi nei Pianobar. Ho fatto una lunghissima gavetta che è iniziata nell’albergo “Casa Rossa” di Crotone  (ancora esistente) nella hall per i turisti e poi diplomandomi sono andato a Firenze dove ho fatto simultaneamente università e musica. Ho avuto anche un bar “Bar Bogart”, dove suonavo e allo stesso tempo ero barman. Quindi ho avuto davvero una gavetta terribile fino a che sono arrivato a lavorare a Roma e approdato nel cinema con qualche colonna sonora. La più recente, a cui mi sento molto legato perché rappresenta il riscatto del Sud d’Italia, è stata composta per “L’Abbuffata”, la pellicola di Mimmo Calopresti su 3 ragazzi che hanno in sogno di fare un film, un po’ come  Sergio Cammariere che sognava da piccolo di fare il musicista. E a quei tempi i miei ascolti ruotavano attorno alla musica rock, i Genesis, i Pink Floyd, ma anche la musica classica (Beethoven, Chopin, Runbinstein, Michelangeli) a cui mi sono avvicinato con il film “Arancia Meccanica”. Il mio concerto è un melting pot perché la mia musica riflette tutto ciò che ho ascoltato: jazz, bossanova, classica, rock e la canzone d’autore.

 

Da cosa derivano i titoli dei tuoi album? Ad esempio, ci spiegheresti meglio “Dalla pace del mare lontano”?

I titoli sono una suggestione che ha avuto il mio coautore, Roberto Kunstler con cui lavoro da 16 anni. Avevamo fatto nel ’93 un album passato inosservato che si intitolava “I ricordi e le persone” e nel disco c’erano canzoni che ancora mi porto dietro e canto. Ma il titolo “Dalla pace del mare lontano” è stato ispirato proprio dalla poesia di Carlo Michelstaedter di Gorizia, uno dei compositori morti “per superbia”, come i poeti maledetti. È il primo verso de “I Figli del Mare”, una poesia epica di 5/6 pagine su due mostri, delle divinità come Scilla e Cariddi in qualche modo.

 

Per concludere, ti senti più un jazzman o un cantautore?

Beh, io mi sento un pianista a cui piace interpretare e cantare. Un cantautore sì, ma particolare, che non scrive i suoi testi come lo erano Cocciante, Battisti… perché io sono molto schivo e timido. Mi piace tanto la poesia, la mia esperienza si deve tanto a Vincenzo Micocci, “lo squalo”da cui sono passati tutti i grandi cantautori italiani (De Gregori, Battisti, Rino Gaetano) che mi ha insegnato come far rotolare le parole su un’armonia, sulla musica. Comunque, mi sento un improvvisatore, uno che con uno strumento “alchemico” quale può essere un pianoforte, cerca di dare il suo cuore tutte le volte, emozionando prima di tutto se stesso e poi gli altri, inventando.

Benedetta Motta

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