Senza la legge sulla canapa, a perdere è la Sicilia Il maxi impianto a Ragusa ora guarda alla Bulgaria

Neanche stavolta ce l’hanno fatta. Il settore della produzione e della lavorazione della canapa in Italia resta nel limbo. E a perderci è soprattutto il Sud Italia. Perché è in Sicilia, in Puglia, in Campania che si concentra la gran parte delle coltivazioni di un settore che nel resto del mondo cresce a tassi impressionanti (+40 per cento in Nord America) e che invece nel Belpaese resta al palo, imbrigliato da una confusione creata ad arte e che mischia volutamente business molto diversi tra loro.

I due subemendamenti alla manovra economica – presentati dal Movimento 5 stelle e che sono stati a un passo dall’approvazione in Senato – prevedevano di fissare finalmente regole certe per il settore: l’aumento del tetto di Thc (il contenuto di tetraidrocannabinolo, cioè il principale principio attivo della cannabis) da 0.2 a 0.5, percentuale indicata da moltissimi studi accreditati come quella più corretta. Sotto quella soglia cioè la cannabis non si può considerare stupefacente. Al momento le soglie consentite sono 0.2 per cento di Thc in negozio, 0.6 nel campo. In più la proposta legislativa prevedeva un’imposta a partire dal 2020: 12 euro a tonnellata per la biomassa di canapa (quella a fini industriali) e 0,40 euro per grammo per infiorescenze e derivati.

Per alcuni giorni – quelli che hanno separato l’approvazione in commissione Bilancio all’approdo a Palazzo Madama – i tanti addetti ai lavori del settore hanno gioito. Perché il traguardo atteso, una regolamentazione non opprimente che desse certezza a chi ha investito, sembrava a un passo. E invece tutto è sfumato di fronte a una parola: «Inammissibile». Pronunciata dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Regolamentare la produzione e la lavorazione della canapa non può essere oggetto di voto insieme alla manovra finanziaria. E così anche stavolta si perde l’occasione di fare ordine in Italia in un settore che conta tremila aziende e diecimila dipendenti. 

In Sicilia sono circa duecento le partite Iva nate fra produzione, trasformazione, commercializzazione e servizi legati al mondo della canapa. E circa cinquecento ettari coltivati, di cui la gran parte nelle province orientali dell’isola. A farla da padrona è soprattutto Canapar, multinazionale canadese che ha deciso di investire nel Sud Europa. A Ragusa, con un investimento di 16 milioni di euro, è stato realizzato il più grande impianto di lavorazione e trasformazione del continente e tra i più grandi del mondo, con una capacità di produrre seicento tonnellate all’anno di biomassa e in cantiere una seconda linea che raddoppierà la produzione. L’impianto si estende su 14mila metri quadrati nella zona industriale di Ragusa, con due capannoni e diversi centri di estrazione. Si producono materie prime per la farmaceutica, la cosmetica, oli per alimenti e prodotti per la bioedilizia con i materiali di scarto. Dà lavoro a una ventina di impiegati, ma nei prossimi quattro mesi sono previste altre 50 assunzioni. Qui conferiscono 54 produttori siciliani.

Sebastiano Conti – azienda nella piana di Catania, a Lentini – è uno di loro. «L’anno scorso abbiamo prodotto 700 quintali su 40 ettari. Tutta venduta. E poi la canapa è un prodotto che serve a migliorare e rinvigorire il terreno. Noi coltiviamo anche grano, riso, cereali, foraggere, tutti biologici, e la canapa è ideale per completare una rotazione triennale nei terreni». Ora però i dubbi rischiano di fermare tutto. «C’è una confusione enorme, coltivare ti espone a rischi perché si lavora con tanti punti interrogativi. Da noi è venuta anche la polizia a fare controlli nei campi, ed è risultato tutto a posto. Per il prossimo anno avevo in programma di estendere la coltivazione a cento ettari, perché c’è molto interesse. Oltre a Canapar, infatti, anche altre aziende non siciliane sono venute a vedere il nostro prodotto. Ma continuerò solo se si farà chiarezza».

Prima di approdare in commissione Bilancio, a Roma ci sono stati tavoli tecnici, sono stati sentiti non solo i produttori e i trasformatori, ma anche tossicologi e studiosi. Ne era venuto fuori un testo che cercava di regolare e dare risposte a due comparti diversi: quello della biomassa di canapa per le industrie e quello per la vendita delle infiorescenze (la cannabis light). Dopo la sentenza della Cassazione dello scorso maggio, sono stati soprattutto i secondi a soffrire l’ondata di repressione: continui controlli nei negozietti, sequestri (quasi sempre poi annullati), sanzioni. Un clima di terrore che ha spinto molti a chiudere. Ma le forze dell’ordine non sono mancate neanche in campagna, per controllare i livelli di Thc delle piante, dove il limite massimo consentito è 0,6 per cento. Ma anche qui i produttori lamentano difficoltà a trovare stabilità. Capita cioè che anche le sementi certificate dall’Ue, alla prova dei fatti, non diano poi il livello di Thc indicato al momento dell’acquisto. 

Fatto sta che la battaglia politica condotta dalla destra in Parlamento – con Matteo Salvini che è arrivato a ringraziare Casellati per aver salvato l’Italia dallo «Stato spacciatore» – ha causato uno stop complessivo. Serve un decreto legge a parte, è la tesi della presidente del Senato, perché qui non si tratta solo di introdurre delle imposte, ma di intervenire sulla legge esistenti, la 242 del 2016, in tema di sostanze stupefacenti. 

«Il nostro umore è a terra – spiega Sanaz Alishahi Ghomi, giovane produttrice di canapa insieme al marito nelle campagne di Lentini, entrambi agronomi – È chiaro che la canapa è diventata strumento di scopi e accordi politici, si pilotano confusione e disinformazione, delegittimando il nostro lavoro. Per produrre canapa industriale serve un investimento iniziale importante. Se poi magari arrivano le forze dell’ordine che bloccano tutto in assenza di regole chiare, noi perdiamo tutto. Un altro dei problemi cruciali, infatti, è proprio questo: non esiste un protocollo a cui uniformare l’operato delle forze dell’ordine. Le associazioni di categoria lo hanno proposto in diversi tavoli tecnici e lettere ai ministri. Niente da fare, così le azioni più o meno restrittive su di noi cambiano in base al prefetto, al commissario, o al sindaco che ci ritroviamo e alle loro idee o appartenenza politica. Sono arrivati persino a sequestrare la pasta a base di canapa e a far circolare le foto del sequestro, confondendo i consumatori. Il danno è enorme».

Se i piccoli produttori sono costretti a tirarsi indietro, la grande industria della trasformazione finisce per guardare altrove. «Noi continueremo a lavorare – spiega il ceo di Canapar, Sergio Martines – ma ci serve la materia prima, se qui non si produce la faremo arrivare da fuori Italia, per questo stiamo guardando soprattutto alla Bulgaria, dove c’è una visione diversa delle cose».

Salvo Catalano

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