INCIDENTE PROBATORIO DEI SETTE ERITREI SOPRAVVISSUTI AL NAUFRAGIO DEL 3 OTTOBRE SCORSO. DICHIARAZIONI SCONCERTANTI MA I MALTRATTAMENTI NON SONO TERMINATI.
di Mauro Seminara
Sette eritrei che sono sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre scorso, quello che ha “commosso” il Gverno italiano, stanno vivendo un calvario interminabile. La loro colpa, oltre al reato di clandestinità, violato e tragicamente terminato per 366 di loro a 800 metri da Lampedusa, è quello di essere testimoni di giustizia. Quindi la loro condanna è di dover avere a che fare con la giustizia italiana. Per far sì che questi disgraziati si ambientino immediatamente nel nostro Paese è stato messo in atto un programma di integrazione accelerato. Forse, più che accelerato, sarebbe il caso di dire “forzato”. Appena 101 giorni di permanenza forzata nel Centro di Soccorso e Prima Accoglienza – perché in Italia la prima accoglienza si fa a mestiere, con calma – senza gran cura nell’informarli sulle ragioni di tale detenzione. Qualcuno potrà dire che erano liberi di uscire e passeggiare in giro per l’isola. Vero. Qualcun’altro però potrebbe chiedere perché chi è “libero di uscire” debba farlo rischiando di rompersi l’osso del collo, come un ladro, attraverso lo storico buco nella recinzione – li dal 2011 – sul retro della struttura.
Questi sette eritrei sono i testimoni più attendibili, quelli più vicini alla coperta incendiata che ha innescato il panico a bordo causando il rovesciamento della barca. Sono quelli che hanno riconosciuto Mouhamad Muhidin, un becero trafficante venticinquenne somalo, quando questi ha messo piede nel centro di accoglienza di Lampedusa il 25 ottobre. Sempre loro, dopo aver forse anche tentato il linciaggio del carnefice quel 25 ottobre, si sono resi disponibili a testimoniare a suo carico. Dopo tre mesi trascorsi a Lampedusa, nel centro in cui al massimo potevano essere trattenuti 96 ore, sono stati trasferiti a Palermo e finalmente hanno reso la loro testimonianza all’incidente probatorio condotto dal Gip Giangaspare Camerini. Alla presenza dell’imputato, i migranti eritrei hanno raccontato gli orrori del loro viaggio. Sequestrati, minacciati, picchiati, torturati e stuprati. Senza dover obbligatoriamente entrare nei dettagli, basterebbe a stabilire che accogliere queste persone è un dovere da esercitare con molta attenzione. Per loro si sono pronunciati autorevoli esponenti delle istituzioni nazionali ed europee e in tanti, con commozione che oggi possiamo presumere come niente altro che apparente, hanno blaterato un “ora dobbiamo prenderci cura dei superstiti” di fronte alle 366 bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa.
La ragazza che ha testimoniato ieri ha raccontato di aver perso la verginità con lo stupro che ha subito da Muhidin e altri due carcerieri. Tutti hanno confermato di essere stati rinchiusi in un casolare-prigione al confine tra il Sudan e la Libia per un mese a scopo di estorsione. Sequestro in cui i prigionieri in attesa di riscatto non hanno comunque valore. Tutte le donne del gruppo preso al confine dai trafficanti sono state violentate dal branco. Tutti gli uomini sono stati picchiati e hanno rischiato una raffica di mitragliatrice. Adesso i sopravvissuti di cui prendersi cura sono stati trasferiti al centro di Pozzallo, Ragusa. Anche questo un centro di primo soccorso in condizioni che poco hanno a che vedere col trattamento umano. Devono ancora fare i conti con la convenzione di Dublino e l’Italia continua a pretenderne la schedatura, dovuta per imprescindibile applicazione della legge che obbliga la Procura a iscriverli nel registro degli indagati per reato di clandestinità. Quello per la cui abolizione si vota finalmente in Italia. In fondo il naufragio è avvenuto a meno di un chilometro dalla costa e quindi ben all’interno delle acque territoriali. La convenzione di Dublino, giunta alla versione 2.0, prevede comunque, malgrado l’aggiornamento, a formulare la richiesta di asilo nel paese dell’area shengen in cui vengono identificati. E loro, chissà perché, non vogliono asilo dall’Italia.
Come nel romanzo postumo di Sciascia, dove un malcapitato rappresentante settentrionale comprende a sue spese “come si fa a essere siciliani”, i sette eritrei e i sei siriani sopravvissuti al naufragio dell’11 ottobre – che per le stesse ragioni si accingono a raggiungere il record dei 101 giorni – stanno comprendendo il rapporto tutto italiano tra la cultura e la legalità. Più veloce nel comprendere il sistema nazionale di accoglienza è stato probabilmente Alì Kiro, in arte Khalid, il sedicente avvocato siriano autore del video choc sulle “docce anti scabbia” che è costato la rescissione dell’appalto alla Lampedusa Accoglienza. Lui, Alì, è simpaticamente fuggito da Lampedusa a capodanno, quando l’attenzione sul suo conto era altissima e altrettanto alta doveva essere la protezione. Le ultime notizie lo davano all’estero. Dal suo “scoop”, diffuso da applaudita inchiesta del Tg2, altri video choc sono stati trasmessi. In molti casi erano servizi realizzati dallo stesso buon Valerio Cataldi del Tg2, ma nessuno di questi ha suscitato tanta trasversale indignazione per il modo documentato con cui trattiamo gli immigrati, inclusi quelli da proteggere. Il 3 febbraio Lampedusa Accoglienza dovrà lasciare la gestione del Cspa di Lampedusa e nella struttura sono ripartiti i lavori di ristrutturazione attesi dall’incendio del 2011.
Una commissione di ispezione della Legacoop era entrata nel centro e aveva certificato lo stato di abbandono in cui versava. Una struttura prefabbricata fatiscente in cui era impossibile poter offrire condizioni di vita dignitose ai migranti, specie se questi vi venivano stipati fino a quattro volte la capienza naturale. Problema risolto. Lampedusa è di nuovo lontana dai riflettori e al cancello del centro di Contrada Imbriacola c’è la fila delle associazioni che si propongono di prenderne in carico la gestione, dopo la ristrutturazione ovviamente. Mare Nostrum fornisce la prima accoglienza ai migranti soccorsi a bordo della nave San Marco e poi, in certi casi dopo qualche giorno, li porta ad Augusta e da li vengono poi condotti in quella Pozzallo che versa in condizioni ben peggiori di Lampedusa. Anche per la missione Mare Nostrum è stata trovata una soluzione e i 200.000 euro al giorno di costo medio della operazione verranno sostenuti dal generoso contributo economico dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Tutto è bene quel che finisce bene. Adesso possiamo tranquillamente continuare a prenderli in mare, a schedarli e costringerli in Italia e a trattarli come bestie in lager dove le probabilità di ammalarsi o di finire in brutte mani sono grosso modo le stesse che nei casolari-prigione di cui ieri hanno raccontato sette eritrei al Tribunale di Palermo.
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