Se Bersani fosse l’allenatore del Catania Nightmare before derby, ma senza inciucio

Stanotte ho fatto un sogno. Che paura. Ho sognato che Bersani diventava l’allenatore del Catania. L’ho sognato mentre, negli spogliatoi, cercava inutilmente di imporre ai giocatori il modulo con cui sarebbero scesi in campo nel derby contro il Palermo: rinunciando all’atteggiamento offensivo che tutti i tifosi si aspettavano, il nuovo tecnico stava magnificando davanti agli increduli giovanotti i pregi di un ultradifensivo 5-5-0. Bocciata quest’ipotesi per opera dei franchi tiratori, ho poi sognato che mister Pierluigi la capovolgeva proponendo un inedito e suicida 1-4-5: modulo che veniva prima applaudito a scena aperta e poi, nel segreto dell’urna, impietosamente impallinato.

Inutile domandare al tecnico perché mai la squadra non potesse scendere in campo rispettando la sua storica identità, cioè schierando il suo classico, sperimentato e spesso vincente 4-3-3: a questa semplice domanda, Bersani non aveva infatti alcuna intenzione di rispondere. Alla fine, pochissimi minuti prima delle 15, veniva fuori la soluzione che nessuno più si aspettava: il Catania avrebbe rinunciato a scendere in campo con un proprio schieramento tattico, e si sarebbe limitato a riprodurre a specchio qualunque modulo gli venisse proposto dal Palermo.

Il tutto avveniva in uno spogliatoio spaccato da conflitti tra diverse correnti. Legrottaglie bombardava Biagianti lanciandogli una raffica di Bibbie tascabili in edizione per calciatori, non molto voluminose, ma rilegate in robusto parastinco. Biagianti rispondeva colpendo ripetutamente il compagno con irriverenti e salaci proiettili, realizzati arrotolando le pagine del Vernacoliere. Per provare a placare gli animi interveniva Pietro Lo Monaco, che nel mio sogno faceva il suo ingresso nello spogliatoio accompagnato da ZampariniScilipotiZenga e alcuni ex giocatori del Catania che, dopo aver sognato il salto di qualità trasferendosi a Palermo, scontavano ora la pena di uno scialbo ma meritato anonimato. Tra questi mi sembrava di distinguere le fattezze di uno che doveva chiamarsi Caserta, o qualcosa di simile. Ai mugugni che ancora provenivano dai giocatori e agli inviti a ripensare per tempo a una strategia che a molti appariva perdente, il nostro nuovo tecnico rispondeva con un inappellabile “Oh, ragassi, siam mica qui a rimetter il dentifricio nel tubetto”. Quindi scoppiava in un pianto dirotto ed entrava in campo abbracciato all’allenatore del Palermo, Angelino Alfano.

Nel mio pauroso sogno (ma questo è superfluo aggiungerlo) il derby veniva vinto a man bassa dai cugini rosanero. Al termine della partita, però, Bersani avrebbe spiegato alla stampa che il Catania poteva considerarsi vincitore benché avesse perso. E che comunque si doveva essere soddisfatti di un risultato che placava gli storici dissapori tra le due tifoserie, che ristabiliva l’unità regionale e che ci avrebbe inoltre permesso di vedere, anche l’anno prossimo, due squadre siciliane in serie A.

Ma il calcio, per fortuna, non è fatto della stessa materia di cui sono fatti i miei sogni. Non almeno il calcio giocato questo pomeriggio al Massimino, in un derby non bellissimo, non fortunato, finito con il risultato, per noi deludente, di 1 a 1. Ma che, nonostante ciò, è stato un derby vero. Un derby che il Catania ha giocato per vincere e che avrebbe vinto, se una punizione battuta alla disperata, addirittura dalla metà campo del Palermo, al quinto minuto di recupero, non fosse finita, dopo una zuccata al limite delle nostra area, sui piedi di Ilicic. E se quest’ultimo, venutosi a trovare solo davanti adAndujar, non l’avesse infilzato un secondo prima che l’arbitro portasse il fischietto alla bocca per decretare la fine della partita.

È stato un derby vero. Lo dico a dispetto dei teorici del complotto, subito pronti, dopo la rete rosanero, a sogghignare saputi, parlando di partita combinata, di risultato già scritto, di biscotto alla siciliana: noncuranti del fatto che, se proprio vuoi combinare una partita, non è che aspetti proprio il novantacinquesimo per concedere agli avversari l’avventura del primo tiro in porta dell’intera ripresa. Né cerchi il vantaggio con l’ostinazione con cui l’hanno cercato i rossazzurri durante tutto il secondo tempo, soprattutto dopo l’ingresso di Castro; andandoci vicino in più di un’occasione e costringendo Sorrentino a un paio di grandi parate, fino a mettere la palla in rete con Barrientos e ad andare vicinissimi, con Bergessio, al secondo gol che avrebbe chiuso la partita.

Senza dire poi che quel che è successo dopo il pareggio del Palermo a tutto può far pensare, fuorché a un clima da inciucio e da volemose bene: con il rosanero Barreto che dopo il gol rifila immotivatamente una testata ad Andujar; e con il nostro portiere che perde la testa e reagisce azzuffandosi a terra con l’avversario e – a quanto almeno si è capito dalla tribuna – cercando di attentare ripetutamente alla sua virilità. Inevitabile il cartellino rosso per Andujar e, temo, una severa squalifica del giudice sportivo. Che andrà ad aggiungersi a quelle che, per somma di ammonizioni, dovranno scontare Spolli e Bellusci.

No, non è stato un bel derby. E cancellerei volentieri tutto quel che è successo nell’ultimo minuto di partita. Però almeno è stato un derby vero. Non abbastanza sapido, lo ammetto, da dare un senso a questo finale un po’ scialbo di un bellissimo campionato. Ma nemmeno tanto insipido per dar corpo ai miei incubi. E, con i tempi che corrono, è già qualcosa.

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Claudio Spagnolo

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