Vado al Palazzo Centrale dell’Università di Catania per seguire un formale forum cittadino sull’Unione Europea e in piazza gli studenti minacciano l’occupazione. La sensazione è che fuori si stia scatenando l’inferno. Qualche faccia si gira verso la finestra da cui provengono i cori dei ragazzi, quasi tutte hanno un sopracciglio alzato fino alla fronte. Leggo il volantino di presentazione e penso che valga la pena restare, vista la lista di autorità che dovrebbero essere presenti.
Raffaele Lombardo: Non può, è rimasto a Palermo.
Il sindaco Stancanelli: Non può, è in trattative per i soliti problemi del Comune di Catania.
Giuseppe Castiglione: Non può, oggi aveva altri impegni istituzionali.
C’è il Rettore Antonino Recca che fa il suo breve intervento, in cui ricorda che fra due anni i soldi per il sistema universitario saranno diminuiti del 20%. Il Magnifico Rettore saluta i partecipanti e va via.
All’inizio sembra una manifestazione come tante, per cui mi convinco di restare e seguire il forum cittadino, poi accade qualcosa. Ora, chi di noi ha avuto genitori sessantottini sa che nel suo dna c’è quel gene, magari è stato fermo, nascosto tra altri geni, ma c’è. E ad un certo punto irrompe. La sensazione diventa una certezza: fuori c’è la rivolta degli studenti. Fuori i cori, il megafono, gli applausi e gli striscioni. Dentro le giacche, le cravatte, le parole solenni e le gambe accavallate e strette. Io sono nel Palazzo. Ma dovrei stare in piazza, per raccontarla. Mi alzo – sono l’unica – lasciando sulla poltroncina tutte le regole della buona educazione e vado alla finestra dell’Aula Magna. Si vedono circa duecento ragazzi, probabilmente ce ne sono molti altri sotto il portone ma dalla finestra non si vedono, si sente solo il rumore assordante.
I discorsi dei relatori del forum diventano un pudding da cui escono soltanto alcune parole – sostenibilità, mediterraneo, risorse, istituzioni – che vengono coperte dalla manifestazione studentesca. I relatori continuano imperterriti ma i lineamenti sono tesi, come se cercassero di parlare durante una bufera di vento. Decido di seguirlo, questo vento, e mi precipito al portone. Chiuso. I ragazzi fuori urlano, battono i pugni contro la porta. Siamo assediati. Le espressioni dei visi che vedo sono un misto di preoccupazione e sdegno, signorotti di un feudo impauriti dai pezzenti coi forconi.
Chiedo ad un poliziotto se può farmi uscire. «Succede l’inferno, se apriamo». I minuti passano dietro quel portone. Immagino che il forum cittadino sia continuato con lo stesso ritmo di prima, scandito dall’accento sulle parole chiave. Al piano di sotto, si cerca di capire com’è la situazione fuori, si interpretano le voci e la loro intensità, si aspetta che le urla scemino, che i ragazzi ormai stanchi tornino a casa. Ma non succede. Metà portone viene aperto, una rappresentate degli insegnanti parla agli studenti. I poliziotti si preparano, in fila sui due lati del portone, che viene aperto per intero lasciando entrare i manifestanti che subito si riuniscono per l’assemblea.
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