«Il teatro è come un quadro cubista: non va capito, ma occorre esserne colpiti». Così la voce del regista Pippo Delbono introduce “La menzogna”, spettacolo in scena al Teatro Ambasciatori di Catania dal 2 al 14 marzo. La pièce fa parte della stagione teatrale 2009/2010 del Teatro Stabile, ma costituisce quasi uno spettacolo a sé stante: una sorta di “fuori stagione”, ideato più per scuotere le coscienze che per intrattenere.
“La menzogna” è un viaggio in un contesto dark, al limite con il sadomaso, ambientato all’interno di una fabbrica: la ThyssenKrupp. E più precisamente nello stabilimento di Torino andato in fiamme qualche anno fa, nel cui rogo persero la vita sei operai.
Bastano davvero pochi minuti per accorgersi che il regista aveva ragione e che la sua opera non è finalizzata ad una comprensione totale, ma piuttosto a turbare, angosciare, scandalizzare. E lo fa con i mezzi più ostili al pubblico del teatro classico, ovvero con il nudo artistico, con l’invettiva del corpo e quasi annientando l’uso della parola. In “La menzogna” non esiste trama, né protagonista. I personaggi si muovono, si contorcono, si spogliano, urlano, ma non dialogano mai. Tra loro non c’è distinzione: il prete, l’operaio, il manager… Mentono tutti indistintamente, e per questo sembra che non possano avere voce. Del resto, alla fine dell’opera, dirà il regista stesso, nudo in scena, «scusate la menzogna che mi porto dentro, ma è così da quando ero bambino, veniamo al mondo su questo teatro della follia».
Una rappresentazione che suscita inquietudine, quasi disgusto, fino a comprendere che ciò che è in scena non è pura fantasia. Sul palco si trovano, infatti, tutte le contraddizioni del XXI secolo: lo sfruttamento della classe operaia, le morti bianche, le disparità economiche, la spietatezza della finanza globale, il dominio economico e conseguentemente morale dei più potenti. Insomma, Pippo Delbono inventa ben poco e crea molto meno di quanto si potrebbe immaginare. Egli denuncia: inchioda il pubblico a delle comode poltrone rosse e lo costringe a guardarsi allo specchio, liberandolo dalla “menzogna” quotidiana e condannandolo alla verità. Come se lo spettatore si trasformasse nel protagonista di Arancia Meccanica, il celebre film di Stanley Kubrick, nel quale un criminale viene costretto ad assistere a violenze atroci, al fine di non ripeterle più.
Eppure anche per Delbono esiste un uomo dalla condizione invidiabile: è Bobò, un anziano che ha trascorso la sua vita in manicomio. Un fallito della civiltà moderna, che ha la fortuna di vivere nell’inconsapevolezza di tutto il marcio che lo circonda, rimanendo pulito e libero. Un personaggio che il regista paragona metaforicamente – e poeticamente – ad un lupo, che, per quanto addomesticato, rimarrà sempre sensibile e vigile al richiamo della foresta.
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