«Cara via Maqueda, ho riflettuto a lungo e credo che dopo dieci anni di convivenza una spiegazione te la devo. Ci sono tante ragioni per cui ti lascio ma penso che la prima, la più sincera sia una: dopo tanti anni al tuo fianco per contribuire alla tua bellezza e per partecipare con te al rinnovamento culturale della nostra città, mi dispiace dirtelo ma mi hai deluso». Questo l’incipit di un post scritto da Alice Salmeri, titolare della Sartoria Maqueda, che dall’1 ottobre ha chiuso per spostare la sua sede altrove.
Parole dalle quali traspare con forza l’amarezza di sentirsi costretti a lasciare un posto amato che, però, secondo l’imprenditrice si è evoluto in termini di contesto in qualcosa che non le appartiene più: «L’artigianato di qualità in quella zona non funziona – dice Salmeri -, anche noi abbiamo una clientela sì che si basa sul turismo, ma è di alta qualità». Il contesto, spiega l’imprenditrice, è quello in cui regnano negozi legati alle catene del comparto food&beverage. «A questo hanno contribuito anche tutte le manifestazioni legate a questo settore produttivo – aggiunge -. Eravamo aperti otto ore al giorno ma non bastavano: i clienti mi chiedevano perché il negozio fosse sempre chiuso ma poi scoprivo che passavano di là alle 21 o giù di lì. È una zona che ormai si anima in orari notturni».
Una parte produttiva della città, quella che insiste sui Quattro Canti, dove hanno chiuso delle attività che erano punti di riferimento per via Maqueda: «La libreria Dante, Pustorino – aggiunge -, insomma, delle realtà di qualità che c’erano. Forse lo ha richiesto il turismo sempre crescente, ma altri centri storici d’Italia tengono le vie principali come dei salotti. Ci può essere chi vende souvenir o panini, ma non può essere tutto così. Sono d’accordo che tutti devono lavorare, ma nel rispetto di chi gli sta intorno».
La titolare della Sartoria Maqueda pone l’accento anche sull’assenza di «politiche che valorizzino l’artigianato. Qua un artigiano paga le stesse tasse di un mega-brand e spesso ci si trova a lottare contro i mulini a vento – osserva -. Per noi andare via è stata una rinascita. Bisogna a un certo punto darsi altre chance. La mia protesta è stata proprio questa: andarmene». Ma non hanno ceduto senza lottare: «Ci abbiamo tentato, anche se i dieci anni che abbiamo trascorso là non sono stati semplici. Sicuramente prima che aprissero tutti questi localini, la zona era più trascurata per certi aspetti ma era più autentica. La mia azienda è stata tra quelle che hanno spinto per la pedonalizzazione ad esempio, ma non avevo forse fatto i conti con l’anima notturna di Palermo».
E poi aggiunge: «Se veramente questo era il modo migliore per pensare via Maqueda, preferiamo trasferirci in una zona che i palermitani frequentano ancora. Via Maqueda poteva evolvere come via Libertà, ma non è stato così. Noi speravamo diventasse un salotto, visto che siamo ai Quattro Canti, ma è diventata un mercato». Un’amarezza, quella della titolare, che permea anche la sua lettera. Anche se alla fine lascia una porta aperta a un possibile ritorno: «Chissà, magari è solo un arrivederci – conclude il suo testo -. Di te ho deciso però di conservare il tuo cognome. Spero non ti dispiaccia. Ti voglio bene e mi mancherai. Un bacio. Sartoria Maqueda».
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