Doppu cha a Sant’Ajta c’arrubaru
Ci ficiru i port’i ferru!
(motto popolare)
Nel 1890, in pieno regime dei Savoia, il tesoro agatino viene violato. Per secoli nessuno mai aveva osato tanto, tutto cambia quell’anno. Per questo prima di allora non era mai stata pensata una misura di sicurezza. L’immaginario collettivo sa bene di cosa si tratta: sette cancelli, altrettante chiavi e migliaia di combinazioni e lucchetti fanno la guardia al simulacro della patrona di Catania. La Cammaredda – la cameretta – ricavata in un’intercapedine tra l’abside centrale e la cappella di sant’Agata – è il luogo in cui riposa il busto. Per accedere al quale, vuole la tradizione, sarebbe necessario passare attraverso meccanismi machiavellici. Impossibili da realizzare se si nota che, materialmente, lo spessore murario non è così tanto da concedere simili macchinazioni. Prontamente si replica sull’esistenza di ascensori che conducono a sotterranei segreti. Sotterranei, beninteso, che nel capoluogo etneo sono tutti comunicanti. Niente è riuscito a intaccare questa leggenda metropolitana, una tra le mille e più che agitano le vie cittadine.
Sembra poi che Sant’Agata le attiri su di sé, come una sorta di faro di storie, soprattutto inverosimili. Così un acquedotto datato al I secolo d.C., la maggiore opera idraulica della Sicilia romana, diventa un omaggio che Quinziano vuole fare alla fanciulla per conquistarla. Una fanciulla che – in assenza di dati concreti – diventa ogni anno più giovane al momento del martirio. E Quinziano da canto suo non è da meno, così lo troviamo morire annegato tra le acque del Simeto – che come il Mar Rosso biblico si apre e si richiude sul proconsole e relativa cavalcatura – e il suo fantasma aleggerebbe ancora tra onde burrascose del fiume la notte tra il 4 e il 5 di febbraio. Peccato che da che esiste la diga elettrica alla Quarara di Manganelli, il fiume abbia perso buona parte del suo vigore, mettendo a tacere le voci: di Quinziano, dei suoi cavalli e del popolo.
La tradizione ricorda poi le impronte miracolose impresse nella roccia al momento dell’incarceramento. Ciò che si ignora, però, è che in epoca antica era usanza realizzare doni (i cosiddetti ex voto) per chiedere la guarigione delle parti anatomiche malate o sofferenti. In quelle società dove il cavallo era un lusso si trattava spesso dei piedi. Nel momento dell’arresto, la tradizione vuole che alla santa sia scivolato pure un seme di oliva. Che miracolosamente attecchisce e diventa grande e robusto. Per la festa si usa consumare le celebri aliveddi, a sostituire quelle aspre dello storico albero distrutto da un fulmine quasi 40 anni fa. Il legame tra l’albero e la santa appare descritto in modi diversi tra loro: in una versione diffusa in anni recenti, l’albero è già piuttosto grande al momento della detenzione di Agata e aiuta la fanciulla a nascondersi e a nutrirsi. Un elemento che permette di capire quanto la vox populi abbia influito a colorare la vicenda.
La festa di Sant’Agata, del resto, è debitrice di parecchi aspetti dei culti della classicità, e dunque assorbe la simbologia legata all’olivo, pianta sacra per i Greci e illustre culla dei gemelli Romolo e Remo secondo i Romani. Una nota di botanica può porre fine alla questione: nel periodo della passione agatina, l’olivo si sta appena risvegliando dalla pausa invernale. La raccolta dei frutti avviene, invece, in autunno. Quanto poi al carcere vero e proprio, la leggenda e l’iconografia correlata si arricchiscono di sfumature che all’epoca del martirio (III secolo) non esistevano, essendo la giustizia romana piuttosto spiccia e sbrigativa: sono invenzioni la cella angusta e le grate alle finestre. E la finestra da cui si affacciava la santa? Si tratta di un cunicolo scavato nelle mura del 1553 per illuminare l’ambiente che la tradizione inquadra come carcere, ma che l’archeologia ha precisato essere parte di un monumento di gusto ellenistico.
Infine, l’anno dopo la morte della fanciulla, il velo che la ricopriva viene usato per fermare la lava che minaccia la città. Un miracolo al quale segue il cambio di colore della stoffa, che da bianca diventa rossa. Ma, dando per buono che quel drappo rosso fosse appartenuto davvero a Sant’Agata, esso doveva avere già da allora quel colore. Lo stesso delle vesti delle diaconesse, diverso dal bianco usato solo in epoche a noi più prossime. Ma la storia nulla può contro le tradizioni popolari, accettate per fede. E ci vuole poco perché diventino – inevitabilmente – vox Dei. La voce di Dio.
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