C’è chi ha ricevuto la grazia e chi è lì per chiedere un miracolo; alcuni per cantare e altri per urlare; qualcuno porta dei fiori, qualcun altro dei ceri. E poi c’è chi scopre l’avambraccio per mostrare un tatuaggio ancora fresco dedicato alla santuzza. Tutti hanno il sacco bianco e si affollano dietro le transenne che servono a contingentare gli ingressi davanti alla Cattedrale e all’altare di via Dusmet. L’ultimo giorno dell’edizione della festa di Sant’Agata 2021 a fermare i devoti non riesce nemmeno il coronavirus con le relative misure di contenimento della diffusione. Del resto, per la giornata del 5 febbraio l’ordinanza sindacale parlava di divieto di stazionamento in piazza Duomo solo dalle 5 alle 15. Il primo cittadino Salvo Pogliese si era appellato «al senso di responsabilità dei cittadini» anche quando dal gruppo interforze per la sicurezza è stato scelto di consentire l’accesso in piazza perché «era preferibile evitare gli assembramenti dietro le transenne», fanno sapere a MeridioNews. «C’è stata una piccola minoranza che non ha rispettato le regole in toto – scrive lo stesso sindaco nel suo ottimista bilancio social della festa senza festa – ma è quasi fisiologico innanzi al travolgente amore che i catanesi hanno per Agata».
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Io sono nato con il sacco e non potevo non passare dai luoghi della Santa anche quest’anno». Ventun’anni e un tatuaggio – il cui inchiostro è ancora fresco – sull’avambraccio con la scritta N.o.p.a.q.u.l.e: l’acronimo di Noli offendere patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est, una frase attribuita a Sant’Agata che letteralmente significa Non offendere il paese di Agata, perché è vendicatrice di ogni ingiustizia. Il giovane è insieme a un 55enne, «devoto da 51 anni», con cui pur non avendo nessun rapporto di parentela si sente legato «dal cordone, come a un padre». Prima di arrivare in centro, hanno percorso tutto il giro interno che, in condizioni normali, avrebbe seguito il busto della patrona. Loro il sacco non hanno intenzione di toglierlo, nemmeno una volta rientrati a casa.
«Il pensiero del rischio Covid ci può stare, ma si sa:
il devoto non lo ferma nessun tipo di pandemia». L’irrefrenabile scittadino, insieme alla madre e alla sorella, ha già oltrepassato il primo varco ed è in attesa di potere arrivare davanti all’altarino dove offrire il cero. Spento il suo, a differenza di quello di altri che quella fiamma l’hanno comunque accesa, nonostante il divieto. Regola comunque più rispettata di quella anti-assembramento. «Solo perché non voglio passare, altrimenti questa transenna la buttavo a terra…». Sarà l’impazienza della devozione o l’astio per le file ordinate, ma dietro le barriere qualche animo si agita e le forze dell’ordine che dovrebbero contenerli sono poche. Se ne lamentano tutti, tra loro, dai vigili urbani alla polizia.
Inginocchiati davanti al cancello della Cattedrale o alla statua di via Dusmet, alcuni devoti – molti dei quali giovanissimi –
prestano la loro voce a chi non c’è più. Tra i nomi più ricorrenti risuona quello di Eugenio Bananedda. Il cognome non lo pronuncia mai nessuno, ma bastano nome, soprannome e il riferimento a un incidente per fare capire che si tratta del 16enne morto nel 2016 dopo l’impatto con un’auto in circostanze non chiare nel quartiere San Leone. Faceva parte della famiglia Ruscica. Papà Carmelo e zio Giuseppe, arrestati la prima volta nel 2013, sono stati entrambi accusati di essere parte dei Cursoti milanesi. Di Agatino Saraniti, invece, più volte vengono scanditi ad alta voce il nome e il cognome. Lui è morto a 18 anni, ammazzato a fucilate tra i campi della Piana di Catania dove, insieme al compagno della madre Massimo Casella e all’unico sopravvissuto Gregorio Signorelli, era andato a rubare delle arance. Per il duplice omicidio sono indagati il 70enne pensionato Luciano Giammellaro e il 42enne Giuseppe Sallemi.
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