Samantha Viva e le voci dell’Afghanistan Il racconto del cambiamento di un Paese

Samantha Viva, giornalista catanese 36enne, è tra le autrici del volume Afghan west, voci dai villaggi. Un progetto multimediale presentato in occasione del primo appuntamento del ciclo di incontri letterari organizzato dall’associazione Officine culturali. «Sono andata in Afghanistan con l’idea di fare un libro di interviste, paradossalmente è più facile per un free lance lavorare in questa maniera», racconta. Invece dei media tour da due-tre settimane, «sono rimasta un mese e lì ho incontrato Elisabetta Loi e Katiuscia Laneri». Presto le tre professioniste decidono di collaborare e mettere in pratica l’idea di Samantha Viva, trasportandola su tre diversi piani comunicativi. Così alle interviste scritte si affiancano le foto di Elisabetta Loi e le immagini girate da Katiuscia Laneri. «Ci siamo trovate in sintonia e invece di farci la guerra abbiamo deciso di unirci», spiega con semplicità.

Filo conduttore del volume è la transition, il passaggio che il Paese affronterà dal 2014, quando le forze militari internazionali cederanno la gestione della sicurezza agli afghani. «L’obiettivo è stato quello di raccontare cos’è l’Afghanistan oggi e come stanno vivendo questo momento storico i suoi cittadini». Un popolo consapevole del grande salto che si appresta a fare: «C’è il timore per l’abbandono, pensano di non riuscire a farcela». E la colpa, inevitabilmente, ricade su quanti l’anno prossimo andranno via: «Dall’Occidente hanno imparato l’assistenzialismo. Succede in un Paese senza un forte potere centrale, il timore è di perdere quanto si è guadagnato».

Nel periodo trascorso tra Herat, Shindand e Bala Boluk, la giornalista ha osservato le dinamiche che si sono instaurate con le forze militari straniere. «Con gli statunitensi rimane un certo astio per quanto accaduto fino al 2005, un rapporto diametralmente opposto rispetto a quello con gli italiani – spiega Viva – Questo anche perché il nostro è un esercito specializzato, attraverso corsi di psicologia e antropologia applicati alle zone di guerra e con un’età media superiore». Al contrario delle forze statunitensi, formate per la maggior parte da giovani soldati di leva annuale che, dopo il diploma, scelgono di partire per un’esperienza all’estero che paghi i costi dell’istruzione universitaria. Dunque l’esercito Usa arriva in «zone molto più impervie e dove il contatto con la popolazione si ha solo in un secondo momento», e gli italiani si trovano «ad aprire la strada al dialogo». Questo anche in virtù della realizzazione delle opere essenziali allo sviluppo dell’Afghanistan attraverso quello viene chiamato sistema Italia. Una modalità per cui le forze italiane ideano e supervisionano quei bandi di gara – destinati esclusivamente ai partecipanti afghani, ma sovvenzionati dal governo Usa – che permettono lo sviluppo dell’economia locale.

Da giornalista embedded al seguito delle truppe militari Samantha Viva ha potuto osservare l’interazione tra le varie componenti che si affrontano quotidianamente in Afghanistan, ma non sono di certo mancati i contatti con i suoi cittadini. «Tutte le storie che abbiamo raccontato sono forti e belle», afferma con sicurezza l’autrice catanese. Ma un posto speciale lo hanno conquistato Somaya e le donne di radio Shahrzad. «Sono riuscite a iniziare le trasmissioni, ma non hanno accettato i compromessi che aveva posto una delle autorità locali», una persona che inizialmente le aveva aiutate ma di cui si erano fidate malvolentieri. «Si sono dimesse in massa», prosegue Viva, e adesso sono alla ricerca di un nuovo luogo dal quale trasmettere. Ma, soprattutto, di appoggio e sicurezza. Nonostante Herat, la città dalla quale trasmettevano, sia una zona piuttosto aperta, per molti è ancora difficile accettare «la propaganda femminile da loro sostenuta». Per la giornalista catanese il prossimo passo sarà ritirare tra pochi giorni, il 30 novembre, il premio Unuci 2013 per la sezione giornalismo appena conquistato. E poi «tornerò in Afghanistan a trovare Somaya e le sue colleghe».

Carmen Valisano

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