Salvare gli ebrei «per bontà e per tornaconto politico»

Quando la persecuzione degli ebrei era già diffusa in tutta Europa, l’esercito italiano cercò di trattare i rifugiati come esseri umani tentando anche di salvarli. La storia di cinquanta italiani – tra ufficiali e diplomatici che salvarono la vita a 50mila ebrei – è raccontata nel documentario “50 italiani” di Flaminia Lubin, giornalista e produttrice di documentari indipendenti.  

Un lungometraggio che – presentato qualche tempo fa in anteprima al Festival di New York, prodotto da “Film Kairos” e mandato in onda ieri notte dalla Rai – racconta di persone che hanno lasciato un grande segno di umanità nella storia, ma che allo stesso tempo non devono essere viste come eroi, perché le loro azioni, quelle giuste da fare>>, rispettavano semplicemente il comandamento di “Non uccidere”.

Vittorio Castellani, Ducci, Lospinoso, Donati, il console Zamponi, il viceconsole di Grenoble Vittoriano Manfredi sono i nomi di alcuni benefattori. Uomini che, secondo fonti storiche (*), tra cui documenti ufficiali e lettere, redigevano documenti falsi o cercavano una qualche traccia di discendenza italiana per internare i perseguitati nei campi sotto la loro protezione. Questo stratagemma rappresentò la salvezza per i tanti ebrei che vivevano in Croazia, Grecia e Francia del Sud.

Nelle interviste fatte ai sopravvissuti – Eva Deutsch, Imre Rochlitz, Miriam Levy, Isaac Daniels e Armando Modiano – e ai loro figli e nipoti, si nota come concordano tutti nel dire che gli italiani lo fecero per bontà e spinti da motivi umanitari>>. Deutsch racconta per esempio che ragionando con la propria testa gli ufficiali italiani prendevano iniziative del tutto autonome da ciò che imponevano Mussolini e Hitler>>.

Non scordiamoci, però, che l’Italia ebbe anche una faccia antisemita, perciò sarebbe più corretto dire che il nostro fu un “Paese di salvatori” più che uno “Stato salvatore”.

A Gerusalemme, invece, gli storici – che studiano il perché gli italiani salvarono un così alto numero di ebrei di tutte le nazionalità – spiegano che in realtà si trattava di motivi politici e di affermazione di indipendenza.

Pur trattandosi di un tema molto delicato e sfruttato, Lubin è riuscita a tracciare uno spaccato interessante di quel periodo. Avvalendosi in modo eloquente sia di documenti ufficiali sia di racconti personali ed emotivi dei sopravvissuti e dei loro familiari.  

 

(*) Fonti storiche:

Le ricerche della Lubin hanno coinvolto gli archivi e le biblioteche del Centro Simon Wiesenthal e l’Istituto della Fondazione USC Shoah a Los Angeles, il Museo alla Memoria dell’Olocausto a Washington, lo Yad Vashem (Memoriale Ufficiale d’Israele delle Vittime Ebree dell’Olocausto) e il Ministero degli Affari Esteri di Roma.   

Stefania Oliveri

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