«Quella di oggi non è una storia degli anni ’80, ma una storia attualissima. Anche perché è ancora oggi che a Trapani c’è un uomo che si chiama Matteo Messina Denaro, un fantasma da 23 anni». Ha ragione il cronista di Repubblica, Salvo Palazzolo, mentre ripercorre la vita di Mauro Rostagno, il giornalista ucciso dalla mafia 30 anni fa. Era appena uscito dalla sede della Rtc, l’emittente televisiva dalla quale aveva più volte denunciato la mafia e i suoi intrecci con politica e massoneria. Muore in contrada Lenzi, a Valderice, dove aveva scelto di vivere e dove oggi è sepolto, mentre si trova a bordo della sua Duna. I killer lo freddano sparandogli con una 38 e con un fucile a pompa calibro 12. «La storia di Mauro è una storia del presente, solo recentemente si è scoperto tanto di quella sera – torna a dire il cronista -. L’amica Marta, dopo il delitto, andò subito a parlare col maresciallo dei carabinieri, gli disse che Mauro pochi giorni prima era stato a parlare con Falcone. Ma lui non fa nulla. Per otto anni dopo la sua morte non succede nulla. Questo ci dà la misura di quanto sia importante oggi ritornare sui posti, prendere in mano le carte archiviate del processo, rivivere quella sera, rivivere quelle persone che per prime furono sulla scena del delitto, rivivere tutto a ritroso».
Lo dice davanti a una platea di adolescenti silenziosa, attenta, che ascolta ogni parola, che capta ogni suo gesto, mentre racconta sul palco del teatro Biondo, dove si è dedicata una giornata al ricordo di Rostagno. Tra loro ci sono anche gli studenti della IV H del Galilei, che hanno calcato quello stesso palco prima del cronista, mettendo in scena l’elaborazione drammaturgica Mauro Rostagno, un uomo vestito di bianco, curata dalla regista Adriana Castellucci. È a loro che si rivolge ora Palazzolo, alzandosi dalla sua sedia, disegnando con le mani quella Duna su cui stava seduto 30 anni fa Rostagno. «I primi colpi li hanno sparati da davanti dal finestrino, altri tre sono arrivati da dietro, altri due sono stati esplosi da un fucile. Ma c’è anche un finestrino posteriore in frantumi che non è stato attraversato da nessun proiettile. Perché è in quelle condizioni? Si scoprirà che è stato il calcio di un fucile a ridurlo in quel modo, perché hanno presto la borsa di Mauro dal sedile, hanno preso forse qualcosa e poi l’hanno ributtata dentro. Cosa cercavano?».
Intanto, di lì a poco la porta della redazione sarà trovata aperta. Qualcuno è passato da lì per fare sparire per sempre una cassetta che Rostagno teneva sulla scrivania. Sparisce anche il duplicato. «I killer non erano interessati solo a fermare lui, ma anche le sue parole. Oggi dobbiamo cercare le parole di Mauro, e fare ancora domande – insiste Palazzolo -. C’è stato del metodo negli omicidi di Sicilia. E dopo ciascuno hanno portato via le parole dei nostri morti. Dove sono queste parole che hanno rubato? In qualche archivio di Stato? Chiediamo allora di aprirli tutti».
Tanti, troppi i misteri. Di questa morte, come di altre del resto. Che rendono l’esempio lasciato dai nostri morti un capitolo ancora aperto e da cui procedere. «Partiamo da Rostagno per fare del giornalismo un mestiere non neutrale, per scegliere da che parte stare», è la provocazione di Claudio Fava, presidente della Commissione regionale antimafia, presente anche lui sul palco del Biondo. «È un mestiere in cui devi raccontare. Se accetti di non raccontare allora stai facendo un altro mestiere». Mestiere che dovrebbe ispirarsi a quell’impegno civile per cui Rostagno ha pagato con la vita. «Ma non chiamatelo eroe, non lo era. Era una persona normale, umana. Con le sue contraddizioni, i suoi errori, come tutti – interviene Alessandro Galimberti, presidente nazionale dell’Unci -. Aveva grande umanità e senso di giustizia. Li ha avuti anche a costo dell’isolamento sociale e culturale in cui è stato relegato. Lui e tutti quelli come lui sono tutti morti da soli. La normalità di questi colleghi si contrappone all’anomalia del mondo circostante. Non esiste l’eroismo di Rostagno, di Fava, di Francese, ma la disprezzabile anormalità di tutto il resto. Sono gli eroi che cambieranno questo paese? Non è così. Non serve delegare a eroi, totem e star system del giornalismo, non è la soluzione. Ma essere umili e coerenti in quello che facciamo». Un monito, il suo, da seguire per riuscire anzitutto a creare, per usare le parole di Rostagno, una società in cui valga davvero la pena trovare un posto.
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