Romanzo a puntate, undicesima parte Quarta lettera alla sabbia

Undicesima parte.
Quarta lettera alla sabbia

Sabbiolina, impazzisco.
Adesso ho preso a correre.

Guardo le montagne, le valli, le piante lambite dal sole; un gabbiano che prende un verme, mentre quello si contorce ferito; il frinire dei grilli, lo sfinire delle cicale.

Anche la notte le sento: sono assordanti, le cicale. Sembra non vogliano mai finire il loro canto. L’ossessione così diventa evidente; mi smarrisce. Sono diventato simile a quel loro suono monotono. Invece, mentre percorro le strade per non pensarti, credo di essere sull’orlo della follia, non posso fare a meno di essere divorato da quel loro crirriirrrrcrrii. E’ diverso da quello dei grilli: è più continuo, martellante. Sono assassine di sonno.

I piedi mi fanno male, il sudore mi bagna, amaro, la bocca. Ed io proseguo; pesto il suolo, lo pesto con livore. Credo che la terra capisca che io voglia negarla. Perché mi rimbalza offesa: non mi protegge più nelle coltri del riposo. Mi respinge. Mi guardo allo specchio e vedo un uomo diverso; ancora più disilluso. Un uomo che ha perso la gara coi suoi nemici invisibili. Continuo ad andare, e la strada si contorce come un serpente ferito a morte, le lingue di asfalto si diramano in liturgie immemori. Perdo il senso del mio andare. Sento le ossa che cedono: anche loro fanno cricccrrricciriii.

Non so quanto ancora io possa resistere. Ormai il mio obiettivo è arrivare estenuato alla fine del giorno; vorrei perdere tutta la mia carne, diventare rena come sei riuscita a far tu, sabbiolina! Se tu lo hai fatto, posso liquefarmi per te, perdere consistenza. Questa sarebbe la prova che nulla può dividerci. E se tu sei ormai nulla, ben venga il nulla. Non può farmi più male di questa realtà, non può risuonare, idiota, ad ogni gesto, non può portarmi ad un unico desiderio. Mi basterebbe avere anche soltanto l’intuizione di te; come quando mi apparivi alle spalle. Sentivo la tua presenza, e non osavo voltarmi: per troppa bellezza, grazia, divinità. Se c’è mai stato del divino, nel mio essere, lo hai portato tu.

In maniera discreta mi offrivi Dio ad ogni sguardo, i tuoi occhi erano pieni di quella sua offerta. Tremavo, vivevo. Per la prima volta avevo tutto. E forse è giusto che tu non ci sia più. Il possesso porta al torpore, non fa onore ai combattenti. Il possesso di una donna, poi, ti fa dormire in un limbo di smemoratezza. Come se si fossero possedute orde di fanciulle in fiore. Ti ho sentita ridere una sola volta, mi è parsa una risata immotivata. Però ricordo la qualità di quello squittio: era una musica d’argento che precipitava sul lino. Adesso, però, anche quella tua ilarità si confonde con il cricccrrricciriii.

Si è uniformata a questo sentiero che mi precipita innalzandomi. Perché vado verso le cime, io. Mi credo un conquistatore di vette, mi premuro di essere un vincente. La fatica, se non altro, mi permette di percepire qualcosa, perché non sento più, non riesco più a toccare con mano la verità delle cose. Sono divorato perfino da un’incertezza tattile che sgomenta. Allora annuso, quasi fossi un cane paziente; annuso una mela, una pera, una noce, dell’uva. Poggio tutto sui miei palmi e cerco di intuirne la consistenza: la morbidezza, la durezza; se hanno un senso.

Per essere qualcosa tento di diventare qualcosa; per non precipitare in una dimensione di vergogna: spogliato di ogni mia certezza. Sentirsi mela è potente: ciò che subisce una frattura così netta tra una sua parte e l’altra, non può che raccontare del bene e del male; contiene un segreto intimo del mondo. Sentirsi pera è dolente, è un frutto che si sfarina. Sentirsi noce è sapersi divorati dal verme: sono io, sempre io.

Ho voglia di farmi legno, di trasformarmi in marmo. Ieri ho fissato un occhio bovino; mi ha fatto male. Quello è l’orrore. Lo sguardo sull’orrore. O è un rimando a qualcosa di differente. L’occhio bovino è forse prima della creazione: parla di cieli d’angoscia; è prima del macello, ti chiama a sé, ipnotico. Non ha bisogno di sapere della morte; anticipa la carne squartata, il taglio in sé.

L’occhio bovino conosce un’essenza che non contempla pace. Sa di qualcosa che è torbido e insonne. Toccare il cotone mi dà una sensazione di gioia. Ma non ha odore, e ciò che non possiede odore mi atterrisce. Mi tormenta non poter ricondurre tutto ai cinque sensi. Solo l’acqua è consolatoria: l’acqua che scivola spazzando via l’arsura; l’acqua che scompiglia, esonda, travolge.

Ed io corro, continuo a correre, e quando mi fermo tocco, continuo a toccare. Vorrei divenire un essere monocellulare; senza di te a che mi servono cervello e cuore? A chi posso rivolgere i miei occhi? A chi posso accostare il mio respiro?

Se solo fossi una macchiolina, un batterio! Inconsapevolmente ingrossare, separarsi, spostarsi senza volontà e ragione. Ieri ho cacciato via dal laboratorio due acquirenti, ho tagliato alcune tele, le ho bruciate. Sentivo freddo perché ero solo. Più solo di prima perché ho conosciuto l’amore senza toccarlo: l’amore è caldo. Battevo i denti come se scrivessi parole insanguinate. Ardere le mie opere mi ha restituito a me stesso; almeno per un attimo. Le mie mani erano percorse da una strana sensazione: la certezza del tepore, il timore di un’imminente ustione. Per un attimo ho creduto di volere il rogo.

Così forse ti avrei raggiunta, sabbiolina: la fine della corsa non riusciva a smembrarmi. Non sudavo abbastanza. Non sudavo tanto da far dissolvere carne e ossa. Poi non ho avuto coraggio e ho ricominciato a macinare chilometri. Corro ancora, sabbiolina; se sarò fortunato il mio cuore finirà di battere.

Sento la vita che mi insegue, e ne ho infinitamente paura.
Ha un solo occhio.
Ed è bovino.

Sergio Salamone

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