Romanzo a puntate, nona parte Seconda lettera, ricordi d’infanzia

Seconda lettera

Sabbiolina, memoria, tenerezza! Sto perdendo i sensi! Tutto per colpa tua! Non riesco a scrivere più nulla di razionale, mi abbandono alla paura, all’incertezza. Non lavoro più, mi tremano le mani.

Dove sei, granello? Ti sei rifugiata nel nulla? Cammino nel pioppeto: sono un folle.

Parlo, straparlo, deliro. Gli amici non riescono a capire: né la storia né il mio scoramento.

Riprenditi i tuoi occhi, la tua pelle, e i tuoi lunghi capelli.

Non so cosa ci riserverà il futuro: noia? Sconforto? Entusiasmo? Infinita passione? Nel ricordo sei così bella…

Come ti coglierei: rosa, cardo, spina. Come mi sanguinano le dita. Come non mi riconosco più. Come tutto è stupido. Come tutto è mortale. Come tutto è un imbuto. Come precipitiamo. Come si riduce lo spazio del sogno.

Torna. Mi basterà sapere che mi guardi mentre dipingo. Tutto lo spazio tra me e te lo riempiremo con ciò che sarebbe potuto essere. Non è forse questa l’arte? Un voler colmare lo spazio tra l’incanto e il reale.

Nei centimetri che ci dividono ci saranno i miei quadri: uno dietro l’altro. Saranno di una forza prepotente. Virgulti. Fari per imbarcazioni disperse. Lampi nell’oscurità.

Torna! A che serve dissolversi nel nulla? E se il nostro mondo è un altro nulla, a che serve esistere senza un’impressione d’amore, di dedizione, di cura?

Sarò tutto questo per te. Se tu non avrai voce, io la raccoglierò per te; se tu non avrai misericordia, io la costruirò per te; se tu non avrai giovinezza, io la ripescherò dal fondo di me.

Sai, ho avuto una giovinezza fantastica: andavamo coi miei cugini alla conquista di piccole colline nei dintorni della campagna di mia zia. Si partiva all’alba, e in una sacca avevamo del pane e del formaggio. Ogni passaggio intermedio del nostro percorso veniva segnato con un panno legato ad un albero. Erano stoffe di vario colore. Gli arbusti erano quasi della nostra altezza, sentivamo la terra, e correvamo verso le cime stabilite con entusiasmo.

Ogni tanto avevamo paura dei cani delle proprietà vicine. Uno, lo conoscevamo già, era gigantesco: con grandi fauci e una lingua perennemente penzoloni. Una lingua grandissima che pareva predisposta a divorare le nostre fragili carni.

Una volta ci inseguì e noi riuscimmo a salvarci riparandoci sui rami di un albero. Era l’albero di albicocche. Un albero che, per moltissimo tempo, fu generoso. Faceva moltissimi frutti, e noi, che ne eravamo ghiottissimi, lo razziavamo ogniqualvolta ne avevamo la possibilità.

Quando, anni dopo, abbandonammo quella casa, e la campagna dintorno, l’albero di albicocche smise di essere rigoglioso, come se avesse avuto il presentimento di un amaro abbandono; stabilì di non dare più niente.

Quando arrivavamo alla vetta, io e i miei cugini, iniziavamo a urlare verso il cielo, a favore di vento. Gridavamo la nostra gioia, la nostra voglia di conquista, la nostra sicurezza del domani.

Poi prendevamo dei ciocchi e vi ballavamo intorno: era la nostra danza propiziatoria.

Ci sorreggevano gambe inesauribili, ed era fantastico sentire la pelle intrisa di sudore e terriccio.

Quando tornavamo indietro gli adulti facevano finta di essere perplessi; in realtà ridevano dentro.

Sembravamo vagabondi e straccioni, ma eravamo felici.

Cosa poteva darci di più grande la vita?

Se non una strada, dei sassi, dei bastoni, il timore dei cani, la gioia del traguardo?

E infine un pasto caldo e buono a ricompensa di quella che credevamo sempre un’impresa da titani.

Quando ci si sedeva attorno alla tavola, per cena, la sera rimbombava di suoni, bicchieri rotti, risate, pianti, alterchi.

Eravamo un magma furioso e vitale.

Allora si crede che continuerà eternamente quella brigata di tenerezza, rancore, e spavento. Invece si va disgregando. Implode.

Come tutte le volte che si è stati assieme; in tanti. Con gli amici.

V’è un momento in cui l’altro viene a noia. V’è quell’attimo in cui l’ultima persona che vorresti vedere è quella che hai visto per più tempo.

E’ strano, e sembra perfino ingiusto che questo possa accadere.

Quelli che erano i tuoi fratelli, i tuoi sodali, ecco che, adesso, ti sono diventati insopportabili. Forse perché ormai ti anticipano; sanno già quello che farai e che dirai, a seconda delle circostanze.

Sono noiosi perché ti rivelano noioso.

Per questo, come una rivelazione improvvisa, ho scelto di essere un solitario.

Perché nell’arte v’è la possibilità della rivelazione e del nascondimento.

Non che io non abbia più visto gente: il mio lavoro mi porta a doverne vedere quotidianamente.

Devi saper vendere quello che crei, devi riuscire a non provare vergogna se dai un prezzo alle tue creazioni.

Del resto la pittura è l’unica cosa realmente seria della mia vita.

Ma adesso tutto si è svuotato; è precipitato al suolo.

Non riesco più a pensare agli oggetti. Non hanno nulla di palpitante. Prima non riuscivo a guardare qualcosa senza pensare alla sua forza.

Tenevo in mano una spiga, e ne sentivo la storia e il respiro.

Era una storia di campi, di contadini, di sudore ad irrigare la piana.

Prendevo tra i polpastrelli una tazza. Ed era vigorosa. O smorta e priva di materia. Mi commuoveva il frinire della natura, il marcire di una foglia.

Una volta, un ramo percorso da formiche, mi sembrò stesse ridendo, che quei piccoli insetti gli facessero un intollerabile solletico; che mi gridasse: aiuto! Muoio! Toglimi di dosso queste creature!

Ora non v’è niente, attorno, che abbia parola.

Mi hai risucchiato con te.

Dove non v’è nulla per cui valga la pena vivere.

Torna.

Sergio Salamone

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