Rita Atria, il ricordo di Palermo a 25 anni dalla morte «Sua storia saldata per sempre a quella delle stragi»

«Forse oggi solo i tuoi pupi raccontano la verità». È una frase che gli resta impressa nella testa, ad Angelo Sicilia. A dirgliela è un collega di teatro che riflette ad alta voce e ne apprezza il lavoro. O meglio, l’invenzione. Quella dei cosiddetti pupi antimafia, in scena dai primi anni duemila per raccontare storie di resistenza e di bellezza. Come quella in scena oggi alle 19 al Cambio rotta di Altavilla: nell’ex bene confiscato alla mafia i suoi pupi raccontano la Storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un titolo che, però, nasconde l’appendice aggiunta all’opera, quella dedicata alla storia di Rita Atria, la giovane testimone di giustizia che si tolse la vita il 26 luglio di 25 anni fa, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. Storie legate a doppio filo, inscindibili. Specie quella di Borsellino e della ragazza di Partanna: è lui il primo a raccogliere le sue rivelazioni.

Nata in una una famiglia mafiosa, a soli undici anni perde il padre, ucciso in un agguato. Si lega quindi al fratello, fino a che non ammazzano anche lui. Capisce che il rifiuto delle logiche mafiose l’hanno resa un’estranea rispetto a Cosa nostra, ma che questo non basta. Che non bastano le mancate punciute, i mancati giuramenti, i mancati reati. Serve parlare, fare uscire tutto e tutti allo scoperto. E lo fa, raccontando le confidenze del fratello, innescando una catena di arresti che qualcuno in paese comincia a non gradire. Si butta dal settimo piano di quel palazzo in viale Amelia, a Roma, dove si era trasferita in segreto: «Borsellino, io senza di te sono morta». «È con lei che si chiude la storia di oggi, uno spaccato che anticipa un intero lavoro che ho intenzione di dedicarle – rivela Angelo Sicilia a MeridioNewsSimbolicamente ho saldato i pezzi di queste storie, che in realtà sono unite fra loro. Non è casuale neppure la scelta del luogo, che rispetto a quello che facciamo ha una valenza raddoppiata».

Si appropria di una tradizione e di un meccanismo comunicativo semplice, Angelo, tipico del teatro dei pupi. Un teatro popolare ormai fossilizzato nel ciclo carolingio e nel quale innesta un nuovo repertorio attraverso cui vuole raccontare la parte più bella della Sicilia. «Ho potuto scardinare i vecchi meccanismi perché venuto da fuori, perché non sono un figlio d’arte, sono estraneo alle famiglie storiche che lavorano su testi tramandati di generazione in generazione. È stato semplice – spiega – Ho messo dentro quello che sono e quello che ero, il ragazzino cresciuto nelle periferie e che ha visto alcuni amici morire per mano di quella mafia di cui oggi racconto». Il suo lavoro, infatti, nasce e si ispira a una storia fra tutte, quella di Claudio Domino, ucciso a San Lorenzo a soli undici anni. Cosa aveva visto, quel ragazzino? Non lo sapremo mai con certezza. Cosa nostra ha voluto togliersi ogni dubbio però, e lo ha fatto a modo suo.

«Lo hanno ucciso un pomeriggio del 7 ottobre dell’86, nessuno a San Lorenzo può dimenticare quel giorno – continua – Quell’omicidio però paradossalmente è stato la mia salvezza, perché mi ha fatto capire cos’era la violenza mafiosa, è per questo che non mi sono mai perso». È con il suo personale bagaglio che Angelo riempie quel vuoto lasciato dal repertorio più classico delle marionette, e lo fa imperterrito da quindici anni ormai. «La mattanza degli anni ’80, le stragi del ’92, Claudio. Ho messo dentro questo grande dolore e questa voglia di riscatto che avevamo noi a 15 e a 20 anni. È stato un modo per me per poter continuare questa mia personale lotta, partendo da una delle forme d’arte più conservatrici e che metteva in scena modelli di comportamento precisi, e la mafia si respirava in tutto quello che si faceva all’interno del teatro dei pupi – racconta ancora – La dicitura “pezzo da ‘90” per un mafioso, ad esempio, viene dall’altezza del pupo più importante che si aveva in scena».

Una filosofia che l’idea di Angelo ha negli anni rivoluzionato, invertendo la situazione. Mettendo in scena un nuovo ciclo che sostituisce i paladini di Francia e che racconta il meglio della storia e della cultura siciliana: «Pio La Torre, Peppino Impastato, Turiddu Carnevale, Falcone e Borsellino, padre Pino Puglisi, Rosario Livatino, solo per dirne alcuni. Un modo attraverso il teatro di figura e di animazione per fare capire che cosa è la mafia, che cosa è la delinquenza mafiosa, con uno strumento formidabile che facilita tutto questo e fa capire immediatamente a tutti, soprattutto ai più piccoli. Ed è tanto poi quello che ritorna indietro dall’umanità senza filtri dei bambini. Ne è valsa la pena di restare in Sicilia», dice. Ma pensa già al futuro, Angelo, e ai prossimi spettacoli, quelli con i quali racconterà altre storie di straordinaria resistenza: quella di Lia Pipitone e di Giuseppe di Matteo, «veri punti di non ritorno di Cosa nostra». 

Silvia Buffa

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