Prof Dato, partiamo dal monastero dei Benedettini e dalla scelta di trasferirvi la facoltà di Lettere negli anni 70. Lei che posizione prese? Si schierò tra i pro-Librino o i pro-centro storico?
Avevo il dubbio che il monastero per la sua natura potesse recepire adeguatamente le aule per la didattica. Come del resto si è dimostrato, perché alcune aule per la didattica frontale sono state fatte in un corpo apposito. C’era un eccessivo timore che l’Università non fosse adeguata al luogo, tanto che è stata fatta anche una nuova aula magna (l’auditorium). Comunque, col senno di poi, tutto sommato l’esperienza di allocare le facoltà di Lettere e successivamente di Lingue ai Benedettini penso sia positiva.
Eppure il muro perimetrale del monastero sembra spesso invalicabile per il resto del quartiere. Forse per gli abitanti la presenza dell’università è diventata più un peso che una risorsa. Lei che ne pensa?
Il muro perimetrale deve restare invalicabile nelle ore notturne per ovvie ragioni di sicurezza; aprire al quartiere significa coinvolgere o far partecipare i suoi abitanti alle innumerevoli manifestazioni culturali che promuovono le Facoltà di Lettere e Lingue, ma questo è un aspetto che attiene all’acculturazione in senso lato. Non far sentire la Facoltà come peso significa promuovere, in sinergia con l’Amministrazione comunale, iniziative per reperire alloggi a basso costo per gli studenti, da attrezzare magari con piccole mense e luoghi di ristoro, librerie, legatorie, eccetera. L’Università da sola, come del resto dimostrano i fatti, non innesca automaticamente processi di recupero e risanamento dei quartieri limitrofi degradati.
È possibile che un solo quartiere, l’antico Corso, ospiti l’Università, un liceo e più ospedali?
Si era ampiamente previsto che una funzione forte come l’università avrebbe generato problemi di congestione di traffico. Come infatti è stato. Anche per la presenza di altre attività egualmente polarizzanti, come gli ospedali Vittorio Emanuele e il Santa Marta. Per questo trentacinque anni fa mi ero opposto, insieme al prof Pagnano, alla distruzione della flora dei Benedettini, dove poi venne fatto il padiglione dell’ospedale dietro piazza Vaccarini. Ma alla fine bisogni come quello della sanità diventano primari rispetto a quelli contemplativi, e alla possibilità di conservare un giardino storico.
Lei si occupò in prima persona del progetto di riqualificazione dell’Antico Corso?
Sì, sono stato incaricato di fare lo studio sull’Antico Corso, dalla Purità fino alla via Botte dell’Acqua. Il mio studio fu consegnato all’ufficio tecnico del Comune che allora aveva una sezione dedicata al recupero del centro storico. Basandosi su quello studio, l’ufficio tecnico progettò, a metà anni Ottanta, un piano di riqualificazione. L’intento di quel piano era quello di liberare il Bastione degli Infetti, la Torre del Vescovo e le mura normanne che oggi non si possono vedere. A mio parere quel piano non era molto coraggioso. Cercava di sistemare le cose, ma accettava supinamente le trasformazioni violente e inadeguate in questa parte storica. Perché le trasformazioni nei centri storici si possono fare, come le opere dell’architetto De Carlo hanno dimostrato. Ma ci sono trasformazioni che non sono di qualità: tra queste considero gli ospedali Santa Marta e Santo Bambino e il liceo Spedalieri. Se fossero demoliti io credo che non piangerebbe nessuno.
Nelle ultime settimane, l’assessore all’urbanistica del comune di Catania, il professor Luigi Arcidiacono, in vista di una riapertura del dibattito in merito al Piano Regolatore, ha detto di essere favorevole al recupero dei quartieri centrali popolari e al blocco delle costruzioni oltre il perimetro urbano già costruito. Lei cosa ne pensa? È veramente realizzabile una scelta simile? O non si riuscirà mai a bloccare l’espansione della città a causa dei forti interessi?
Naturalmente mi trovo d’accordo. È una buona posizione perché mira alla riqualificazione della città esistente. C’è in verità un patrimonio enorme sia pubblico che privato sottoutilizzato. Abbiamo tanti alloggi vuoti, degradati o di basse densità edilizia, come le case terrane. In alcuni di questi casi si può anche intensificare l’edificabilità, cioè portare la casa terrana a due, tre piani se il contesto lo permette. Con molta oculatezza e non in maniera indifferenziata. Perché riqualificare non può significare solo lasciare l’esistente. L’espansione può comportare anche densificazione e la
periferia sud presenta molto occasioni; senza scandalo, è ovvio che ci sono interessi; il problema è di orientarli e ripartirli e non di privilegiare soltanto alcune aree; con la riqualificazione urbana
questo si può fare.
Su questo punto all’inizio degli anni ‘90 vi fu una polemica tra il dipartimento d’urbanistica dell’Università e il professor Pier Luigi Cervellati. Lei che posizione prese?
Polemizzai col professor Cervellati che proponeva la conservazione tout court delle case terrane in maniera indifferenziata. Io dissi che mi sembrava una posizione neo-verista, chiamai quella soluzione ‘la casa del nespolo’, per sottolineare che magari può risultare pittoresca ma non genera una buona condizione abitativa. Quando le case terrane non costituiscono un sistema unitario ma sono singole e magari oggi vengono adibite a garage o depositi, allora tanto vale demolirle e ricavare spazi pubblici o intensificare la costruzione.
Perché non si è mai riusciti ad aggiornare il Piano Regolatore? Pensa che sia ancora uno strumento utile alla città? Quale può essere la soluzione alternativa?
I piani regolatori ormai, nel loro iter di formazione e approvazione, hanno un percorso troppo lungo e inadeguato rispetto all’evolversi dei bisogni della realtà. È inoltre il luogo di forti interessi immobiliari, che sono quelli rappresentati nelle amministrazioni comunali. Tuttavia il piano regolatore resta l’unico strumento veramente utile e necessario per la città, si tratta solamente di snellirne le procedure di formazione ed approvazione. A questo proposito esistono molte riflessioni e nella passata legislatura regionale era stato presentato un disegno di legge interessante. Non ce ne sono alternative, in tutto le città del mondo civile i piani regolatori si fanno e producono effetti positivi, basti citare gli esempi più noti di Barcellona e Bilbao.
L’eventuale aggiornamento del vecchio Piano Regolatore deve tenere in conto la vocazione della città di Catania. L’assessore Arcidiacono ha detto che è ora di scegliere tra vocazione turistica e d’insediamento urbano finalizzato ai cittadini. Catania da questo punto di vista sembra molto indietro.
Catania non può avere solo una vocazione turistica. Di turismo possono vivere soltanto dei siti veramente eccezionali e con una lunga tradizione alle spalle. Il turismo può essere una componente, ma credo che questa città abbia da sempre una vocazione terziaria. Gli ultimi interventi eclatanti di questi anni sono mirati al commercio, basta pensare all’Etnapolis.
Gli interessi commerciali sembrano aver influenzato anche l’ultimo accordo su Corso Martiri della Libertà. Cosa ne pensa?
Corso Martiri della Libertà rappresenta una grande occasione che ha il Comune per poter trovare una concertazione con i proprietari delle aree per ricavare il più possibile spazi di verde pubblico. Gli spazi vuoti per questa città possono essere considerati presidi antisismici, e quindi ancor più necessari sotto, nell’area più a rischio in Italia. Bisognerebbe trovare un compromesso tra zone da edificare e zone da lasciare libere. Io, comunque, per quest’area avrei fatto un concorso internazionale di idee, anche per lanciare l’immagine della città.
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