Sono passati diversi giorni da quando la Corte costituzionale ha bocciato l’ennesimo rinvio – il diciannovesimo, per la precisione – del voto di secondo livello delle province. Un rinvio nato e gestito, male, tutto in seno alla maggioranza di centrodestra che all’Assemblea regionale sostiene Renato Schifani, presidente della Regione che per l’ennesima volta – pure lui, ma questa volta il numero preciso è incalcolabile – si è trovato a ribadire la coesione, l’armonia e lo spirito da volemose bene che alberga tra Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, Democrazia cristiana, Movimento per le autonomie, Noi moderati e chi più ne ha più ne metta. Salvo poi essere, anche qui per l’ennesima volta, smentito dai fatti. O meglio, dalle dichiarazioni.
Quella dell’amico Marco Falcone, per esempio, ne è la prova lampante: «Avevamo detto che il tentativo di ripristinare subito l’elezione diretta delle ex Province sarebbe stato solo una tattica dilatoria, e così è stato. Oggi abbiamo una nuova conferma: il rinvio delle elezioni provinciali in Sicilia è una prassi incostituzionale». E ancora: «Voglio ricordarlo anche oggi: l’elezione diretta nelle ex Province rimane il nostro faro – sottolinea l’europarlamentare azzurro – ma è sempre più evidente che il quadro normativo nazionale non ci consente, ad oggi, di raggiungere tale obiettivo. Il territorio ha invece bisogno di essere governato subito. Ciò avverrebbe anche con le elezioni di secondo livello, senza che debbano farsi altri giochi di palazzo. Auspichiamo che a Palermo prevalga il senso di responsabilità». Concetti cristallini, inappuntabili, se a ottenere il tanto discusso rinvio fosse stata l’opposizione. O se a pronunciarle fosse stato un leader d’opposizione.
E invece provengono da un alto ufficiale del partito di Schifani, Forza Italia, che fino a pochi mesi fa sedeva accanto al governatore nelle sue sparute presenze in Aula, e lo faceva da assessore all’Economia. Parole che fanno pensare a venti di burrasca in maggioranza, ma non sarebbe per niente una novità. Resta tuttavia da delineare il vero ruolo che ha giocato l’opposizione, quella vera, a livello nominale, in questo pastrocchio. E su questo fronte andrebbero indagate le parole pronunciate dal presidente dell’Assemblea regionale, Gaetano Galvagno, che dopo l’ennesimo attacco in Aula nei confronti di chi voleva rinviare il voto, rivolgendosi al pentastellato Luigi Sunseri sbottava: «C’è un grandissimo velo di ipocrisia in ognuno degli interventi che ho ascoltato. Questo emendamento è stato concordato con tutti i capigruppo dell’opposizione, che non hanno firmato. Queste osservazioni che ha fatto sono osservazioni che avrebbe potuto fare al momento opportuno il suo capogruppo. Come presidente dell’Assemblea, dinnanzi alla volontà dei deputati e dinnanzi a nessuna osservazione sul grado di inammissibilità dell’emendamento, lo metterò in votazione».
Parole su parole. Alla fine però quelle più importanti, come sempre, sono quelle che non si dicono. E appartengono a Renato Schifani, che dopo giorni ancora non si è espresso sulla bocciatura della Corte costituzionale e ha lasciato che il tempo scorresse, come se nulla fosse accaduto. Portare avanti l’emendamento si potrebbe comunque fare, tenendo comunque a mente che l’impugnativa sarà più che scontata. Ma magari ci proveranno lo stesso. Mentre in commissione Bilancio arriverà il disegno di legge per reintrodurre il voto diretto per le province, come se la riforma Delrio, che solo Roma può far saltare, non fosse anch’essa mai esistita. E soprattutto non fosse già in vigore. E sarà interessante vedere come tutto ciò si ripercuoterà sull’Ars, dove giovedì scorso – quando ancora la Corte non si era pronunciata – era andata in blocco, con una seduta lampo di appena due minuti e 13 secondi. Di certo c’è che quello che passa al di fuori dalle segrete stanze di palazzo è che, malgrado tutto, in maggioranza non c’è coesione e che quando c’è si producono – con o senza l’apporto dell’opposizione – provvedimenti tecnicamente inammissibili.
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