Forse perché c’è sempre stato qualcosa di più importante da ricordare. Forse perché per l’Italia dell’immediato dopoguerra leccarsi pubblicamente alcune ferite significava tornare indietro e riaprirle. Forse perché quella guerra mondiale ci aveva consegnato un bilancio già orrendo di per sé, e aggiungervi il peso delle foibe sarebbe risultato insopportabile. Forse per questo ci sono voluti sessant’anni. Forse per questo solo a febbraio del 2005, a sessant’anni dalla fine della guerra, per la prima volta venne istituita una giornata del ricordo, che oggi, nel 2007, sembra non aver perso rilevanza mediatica.
Ci volle una fiction (“Il cuore nel pozzo”, trasmessa da Raiuno proprio due anni fa e annoverata ormai tra gli esempi più recenti dello sforzo di memoria del nostro Paese) per raccontare agli italiani di quell’orrore, dell’ennesimo orrore di quella guerra. Perché anche i libri di storia sembrano averlo dimenticato. Come se queste vittime fossero meno innocenti di altre, come se non meritassero di essere nominate almeno quanto gli ebrei uccisi nei campi di sterminio, come se l’oblio non equivalesse ad ucciderli un’altra volta, a spingerli di nuovo in quei buchi infernali.
Qualche cifra? – Già, perché è solo così che riusciamo a chiamare l’orrore per nome – Purtroppo il numero esatto degli italiani e degli slavi massacrati e gettati nelle voragini del Carso non lo avremo mai. Troppi di quei corpi erano già irriconoscibili, la prima volta che gli altri italiani, quelli sopravvissuti, decisero di provare a riesumarli e a restituirli al dolore dei loro cari. Le stime più attendibili, comunque, parlano di 10.000-15.000 infoibati. Italiani, ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli soltanto di ostacolare, con la loro presenza nei territori di Trieste e dell’Istria in cui avevano sempre vissuto, l’espansionismo comunista slavo propugnato dal maresciallo Tito.
Mentre l’Italia festeggiava la fine della guerra, migliaia di istriani venivano tolti alle loro famiglie senza un’apparente ragione di ordine politico, con un meccanismo perverso di pura casualità, per non fare mai più ritorno. E in 350.000 lasciavano le loro case, le loro città di nascita per sfuggire proprio a questo destino. Per non parlare della paura che per anni ha accompagnato chi è rimasto, del terrore che Tito e i suoi potessero tornare da un momento all’altro, un terrore che probabilmente neanche dopo il ritorno, nel ’54, di Trieste all’Italia è scomparso. Un terrore che non è né di destra né di sinistra, che dimostra quanto è fragile la linea che separa i “buoni” dai “cattivi”, di quali crimini gli esseri umani, quale che sia il partito in nome del quale decidono di agire, sono capaci di macchiarsi, spinti dalla brama di potere, da un odio incondizionato che ha insanguinato la storia e continua a insanguinare il presente.
Con lo scopo di “ricordare per capire” (come recita l’homepage) è stato creato www.lefoibe.it, un sito a cura della Lega Nazionale di Trieste, ricco di Storia e di storie, di documenti e di immagini. Domani, 10 febbraio, le testate giornalistiche della Rai si occuperanno della commemorazione, mentre Rai Educational proporrà su Raitre una puntata speciale di “La Storia siamo noi”, nella quale Giovanni Minoli ricostruirà la vicenda grazie alla testimonianza esclusiva di un sopravvissuto, Graziano Udovisi. Perché il passato non si cambia. Ma allora il nostro dovere diventa quello di ricordare. Anche tragedie come questa. Con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione.
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