Ricordando Franco Scaldati

Entra nel buio dalla quinta destra, attraversa la scena e si siede a fianco di un tavolo, a sinistra. Rimane immobile così, senza una luce addosso, anche quando parte la sua voce registrata. Tempo lungo occorre per i versi dell’overture di Scaldati. Inizia lo spettacolo dell’Angioletto vestito di giallo che poi finisce nell’ombra, dov’è cominciato.

Un profilo sapiente che ascolta se stesso, come Kurtz, come Krapp: l’ultima immagine che ho di Franco è questa. Non quella del suo volto sofferente che mi guarda amico dal letto d’ospedale e mi fa appannare di lacrime. E’ quella sagoma muta, invece, che sembra ingigantirsi alla memoria: la dismisura di una presenza irripetibile nel palcoscenico della sua ultima replica. Mi venne in mente, mi ritorna ora, una frase di Peter Brook a proposito di Grotowski: il campo d’azione dell’attore è lui stesso. Si potrebbe pure dirlo dei poeti.

Il campo di Scaldati, drammaturgo poeta e attore, è senz’altro Scaldati. E noi appresso a lui, da interpreti forse inadeguati, destinati da ora in avanti a tradurlo.

Perché il suo è un campo fertilissimo attraversato da una corrente irresistibile. E’ un orizzonte raro, uno di quelli dove il sole e la luna irradiano la stessa luce e la stessa tenebra. E’ un territorio impervio e, insieme, invitante, come ogni territorio poetico: tutto da percorrere, a nostro rischio e pericolo.

Quella piccola sala della rappresentazione ultima è la stessa del primo ricordo che a lui mi lega in scena, da giovanissimo: il Ridotto del Teatro Biondo, nel 1980, per un frammento del Pozzo dei pazzi, inscritto, per volontà di Pietro Carriglio, nell’In forma di rosa che fu un mélange dei suoi primi testi, dove mi volle nel ruolo di Totò il folle (…con le sue mosche e la sua gallina). Sul palco, Scaldati e il magnifico Gaspare Cucinella-insieme Benedetto e Aspanu come se fossero un organismo unico- si mangiavano tutti gli altri attori, consumando se stessi fino allo sfinimento. In quell’occasione, con brusca pazienza, Franco m’insegnò, una volta e per tutte, che recitare è sacrificio, è dare corpo a ogni gesto e battuta, è fare di ogni sussurro un urlo e viceversa. M’insegnò che quel sacrificio, replica dopo replica, non è che un’offerta gettata in grembo allo spettatore, un rituale funesto e rigenerante da consumare con rabbia gentile: è teatro, il teatro dei veri teatranti. Quella sua preziosa lezione la utilizzai come grimaldello etico per il mestiere futuro, da attore e da regista.

Scaldati diventò presto, per me, come uno di quei leoni di pietra che ornano i transetti di certe chiese romaniche, guardiani di templi cultuali e di alberi sacri, minacciosi simboli di resurrezione. Diventò un vitale punto di riferimento, un crogiuolo e un frantoio, una specie di oracolo disincantato, profondamente umano anche perché dotato d’irresistibile ironia non di rado rovesciata in sarcasmo (il punctum delle sue felicissime origini popolari).

Recitare al suo fianco era per chiunque un’estatica esperienza di squartamento, uno stimolo esaltante e frustrante insieme, come suonare in una Jam Session con Charlie Parker in persona. Il segreto è di non smettere di ascoltare se stessi, di blandire il proprio limite, di abbandonarsi al ritmo senza mai perdere il sentimento della misura.

Una misura stringente e liberatoria che, già dalla prima lettura, impone l’organico dettato dei testi di Franco. Partiture frastagliate e sottili, robustamente annodate in vaporose risonanze o in rime accuminate, dove ogni pausa è un segno da interpretare. Punti di sospensione che si atteggiano a respiri ora troncati e ora dilatati, tensioni in continua torsione manifestate come traiettorie su un Vuoto che reclama sempre un’espressione piena. Nella sua scrittura regna sovrana la logica sospesa del frammento come allusione al tutto.

Dai suoi attori il leone Scaldati esigeva rigore e tremore: quell’intensità rappresa e pronta all’introspezione, quel diminuendo sfumato in arroventate cesure che sempre la parola poetica pretende quando si fa scena, quel grado d’improvvisazione propria degli acrobati che si piegano all’estro ricomponendo all’ istante, con studiata naturalezza, la memoria metabolizzata dei propri allenamenti.

Fare teatro è come fare all’amore, diceva ai suoi: una faccenda di mistiche, chimiche consonanze tra corpo e anima (quando l’anima c’è e non si smarrisce strada facendo).

In scena, Franco era esemplare: indossava con feroce tenerezza i propri versi fino a quando questi non aderivano a lui come una seconda pelle. Per incarnarli con la sua voce morbida e ruvida, quel leone usava la consapevole nonchalance che hanno solo i poeti quando leggono se stessi. Cantava, certamente, inseguendo l’ideale fraseggio della sua scrittura, il senso primario di quella musica, la superficie sonora del suo personalissimo abisso di poeta.

Il suo canto era la phoné della malinconia. Ed era un canto che lo faceva vibrare tutto, come se fosse l’officiante di una ben interiorizzata possessione. L’urlo in lui evocava non solo furore ma pietas: “A ‘addina è mia e pò jttari sangu ru cuori c’‘on t’a rugnu. E’ mia…è mia…è mia”- cantava così nel Pozzo il suo Benedetto, brandendo una violenza che si scomponeva in tenerezza struggente.

Avvoltolati, stanchi, ripiegati, sbalzati dentro se stessi; e poi, a un tratto, per una capriola umorale, indotti a tirare fuori le viscere, il cuore e tutti i sensi e sentimenti: i personaggi del teatro di Scaldati sono figure prigioniere di un girone infernale condannate a un incessante detour esistenziale. Sono l’espressione ancestrale e implacabilmente prosciugata della condizione stessa del sottoproletariato di Palermo come di tutti i Sud del mondo, la sua mitologia. Franco ha trasformato il loro dialetto in lingua (una lingua purificatrice ma non pacificatrice). Un mondo riconsegnato alla lettera poetica, fonemi come note, fraseggi aspri e materici, un linguaggio finalmente liberato dalla gabbia della volgarità piccolo borghese, dalla melassa bozzettistica che ancora oggi fa breccia nel midcult nostro contemporaneo.

Per lui, un ponte dorato era Pasolini e due ponticelli solidissimi e limitrofi erano Beckett e Céline. Quel Céline del Viaggio al termine “dans l’Hiver et dans la Nuit” di cui parlammo ammirati, ottenebrandoci reciprocamente, qualche anno fa in un pomeriggio di prima estate nel suo penultimo studiolo ingombrato e incavato di Corso Olivuzza dove troneggiava in bilico la sua Olivetti 33. Della letteratura (come del teatro) gli interessava soprattutto la musica, e per questo venerava i grandi umoristi e le scritture etiliche ed esoteriche dei maledetti. Per lui dannatamente benedetti erano Shakespeare e Dostoevskij, i due immensi che Franco corteggiava in continuazione e con i quali duellava da par suo quando decideva di tradurne le più sigillate profondità. Gli piaceva pure orecchiare la musica del cinema: specialmente quella dell’immagine depurata e abbacinante che buca l’occhio, il perturbante candore di Dreyer e gli apocalittici ritagli di Bresson, pura energia cinetica che travalica lo schermo per mangiare la testa di ogni spettatore disponibile a farsi azzannare.

Prediligeva lo stile in ogni cosa, non faceva altro che ammantarsi di stile, ripudiando ogni snobismo o moda “artistica” che gli trascorreva davanti.

Il leone poeta era avido di fissità, si lasciava ammaliare da essa, facendola poi rimbalzare nell’ alchimia del suo teatro, utilizzandola come appuntito oggetto di seduzione. Anche per questo si era legato all’altro Franco di Palermo, il mio buon amico cineasta Maresco, che l’ha amato e riplasmato con furibonda passione, riconoscendone il magistero: un’affinità speciale li ha incollati, una comune radice civile e culturale, l’aspirazione sulfurea a ciò che di sublime c’è nell’ombrato, lo stesso sguardo ieratico sulle contraddizioni perverse dell’irredimibile anamorfosi panormita, la stessa emozione (non solo intellettuale) nei riguardi della dinamica eversiva che sovrintende ogni rappresentazione dell’immutabile.

Dal canto mio, confesso per vanto di non aver mai potuto fare a meno della guida di Scaldati. Mi piaceva incontrarlo non solamente per lavoro. Insieme parlavamo di libri (me ne regalava sempre qualcuno, con generosità) e di quel teatro che lui vedeva in giro e che spesso lo deludeva. Parlavamo di argomenti disparati e casuali (ultimamente a fianco del suo sodale, giobbico Melino e del nostro complice Roberto Giambrone ) e mi lasciavo scuotere dalla sua delicata ma puntuta intelligenza, sviluppata in rare asserzioni incisive e spietatamente concrete. Dopo le non poche tournée (ricordo quella di Buela quando Franco divenne preda dell’ammirazione di Rosa Balistreri, altra lavica e insostituibile presenza scenica), i camerini comuni, le solidali imprecazioni rabbiose e le caustiche sentenze dietro le quinte, l’odorarsi reciproco sul palco e fuori, i progetti lanciati e poi rinviati ad libitum (un’unica mia regia per lui, uno studio su una porzione del fluviale suo Libro notturno dal Macbeth shakespeariano nel dicembre del 2002 al Teatro Santa Cecilia), dopo questo e altro, una solidale occasione teatrale è stata, a parte un Don Giovanni Tenorio, la sua partecipazione a un mio allestimento al Teatro Biondo della Stanza di Harold Pinter. Gli ho chiesto di essere Riley, il “negro cieco” che, irrompendo sul finale, invita perentoriamente la protagonista Rose a tornare dal padre. Franco trasformò quell’ambiguo invito in un’implorazione funerea e la sua presenza accecata in minaccia fatale. Fu più pinteriano di tanti interpreti canonici di Pinter.

E si mutò, per l’ennesima volta, in un leone ammonitorio e sibillino, ripiegato in se stesso ma pronto a divorare le sue prede: uno statuario hic et nunc attorale che propagava una potente e pericolosa carica di elettricità. Come l’attore fluttuante di cui si legge nel celebre testo di Yoshi Oida, conduttore di quella “recitazione vuota” capace d’indicare, attraverso la semplice concentrazione, l’energia di una presenza in costante stato di metamorfosi. Uomo, animale, divinità. Spirito e materia. Forte come la vita, forte come la morte: Scaldati sì che sapeva esserci sulla scena!

Giorno dopo giorno si risvegliava invasato, la sua quiete era la sua tempesta. E ogni giorno annunciava una nuova prova, come un esorcismo. Niente sembrava scalfirlo, nemmeno la grande amarezza (che confessava con pudore) di non avere ricevuto la giusta ricompensa di un proprio teatro dagli ignavi amministratori di quella città di cui ha voluto dipingere gli incerti contorni, la sua Palermo che gli scompariva attorno e che lui si ostinava a immaginare vertiginosamente indelebile. Per fortuna, mi sono ritrovato testimone di alcuni suoi momenti di felicità nei mesi rigidi degli avventurosi spettacoli della sua rinnovata compagnia nel giardino del Centro sociale di padre Scordato, il buon rifugio, dagli anni novanta in poi, dove Franco ha potuto mettere in scena il suo incantevole bestiario teatrale. Ricordo una replica in una notte di pioggia di Gennaio, la brace accesa, le crepe fiorite di simulacri di rovine e di rovine vere, le vocine caste e maliziose delle attrici, e guaiti e miagolii e trilli stupiti degli esecutori in un crescendo dodecafonico: un mostruoso, divino concertato zoomorfico come un sogno dentro un sogno di Bosch.

Ricordare…basta.

Caro Franco, ora che la trasmigrazione si è fatta necessaria, io che ti ho vissuto tante volte, nel tempo breve e nel tempo lungo del tremore, come ctonio spettro e incarnazione di rigore, voglio continuare a percepirti compatto e solido come il marmo o la pietra, come uno dei leoni pagani davanti alla chiesa di Beaulieu, pronto al ruggito, disposto a una resurrezione da Racconto d’inverno.

So che ti ritroverò spesso nel corpo dei tuoi testi trapuntati , nelle coloriture affilate delle intonazioni dei tanti tuoi allievi a cui hai fatto da padre, e persino nella mimesi dei tuoi troppi epigoni. Ti ritroverò rileggendoti e, come tutti, cercherò di decifrarti con scrupolo.

Mi mancherà molto la flagranza delle tue risposte non date, il gioco sadiano dei tuoi enigmi, il taglio scettico di certi tuoi sguardi, il tuo indicarmi con saggezza le soglie delle porte aperte o chiuse. Mi consolerò ancora indagando la tua immagine incisa in quel buio rilucente “vestito di giallo” .

In quanto alla tua voce, basta un foglio a vivificarne la traccia. Il foglio di una tua partitura (l’ ho ritrovato di recente) che una volta hai eseguito con scrupolo, prestando pure il tuo volto antico, per un mio cortissimo filmetto di qualche anno fa: una specie di rosario d’antologia palatina sul tema delle minne (del sacro femminino): “minne sergentine/ minne cavernine/ minne organine/ minne candeline/ minne sartine/ minne ciliegine/ minne fragoline/ minne perline/ minne coralline/ minne nebbioline”… E così via, inanellando infinite qualità.

Questo ipnotico ordito che, con perizia di sarto (il tuo primo mestiere), hai cucito per l’occasione, e poi hai cantato utilizzando i tuoi sapienti armonici arrochiti, sarà per me l’umore sonoro della tua grazia scontrosa, l’olio distillato dal tuo infrangibile frantoio.

Da non dimenticare. Mai.

 

 

 

 

Umberto Cantone

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