Quando penso a Catania la immagino come una donna. Una donna forte e bellissima. Occhi verdi come il mare di Acitrezza, capelli rossi come il fuoco dell’Etna, e un fascino che ti fa innamorare di un amore folle, carnale, viscerale. Catania è anche madre. Una mamma affettuosa, generosa che regala ai suoi figli il sole, il mare, la terra, la luce e la bellezza. Una madre che dona tutta se stessa ai suoi figli, affinché essi possano essere felici. Catania, però, è malata. Consumata, straziata, stremata da un cancro nero che le scorre nelle vene, rendendo torbido il suo sangue. Questo cancro cresce sempre più e ha metastasi radicate fin nelle viscere della sua terra. La malattia non ha pietà e contagia anche i suoi figli, attaccati e invasi da virus chiamati delinquenza, associazione mafiosa, spreco di denaro pubblico, tangenti, interessi personali a scapito dei cittadini, appalti a tavolino, clientelismo, monopolio dell’informazione, voto di scambio, raccomandazioni, mangia e fai mangiare gli amici tuoi, omertà.
Catania piange i suoi figli infettati, e non ha forza a sufficienza per combattere da sola e per salvare chi, invece, merita di essere salvato. Stanca di lottare e indebolita dal cancro nero, ferita e umiliata, si sta arrendendo, e insieme a lei, anche i suoi figli onesti. Non vedendo per loro un futuro in questa terra, scappano via, il più lontano possibile da lei. Credono che Catania li abbia abbandonati. La odiano, la disprezzano per com’è diventata, e per salvarsi dal male che incombe, l’abbandonano a loro volta.
Quando penso a me io mi vedo come una studentessa di ventidue anni, nata e cresciuta a Catania, con tanti sogni e progetti, come tutti i ragazzi della mia età. E con un amore profondo per la mia città e intenzionata a lottare con tutte le mie forze per renderla un posto migliore. Forse mangio pane e sogni, ma sono profondamente convinta che Catania possa rimettersi in sesto. Non pretendo che guarisca completamente, ma che si possano alleviare le sue sofferenze. Il cancro che la sta uccidendo non è terminale, si può curare. E dobbiamo essere proprio noi catanesi a curarlo. Magari qualcuno di voi si sta chiedendo come fare, o meglio, come una ragazzina di ventidue anni vuole curare Catania. Non è semplice, anzi, è quasi impossibile. Quel quasi, però, è la mia speranza. Il mio è un sogno, un’idea di vita, un preparare il terreno a infiniti sacrifici, difficoltà, sconfitte, scottature e magari delusioni, che magari altrove non incontrerei. E so anche che se niente ti è dovuto, che tutto te lo devi guadagnare sputando sangue, a Catania te lo devi sudare di più quello per cui hai lavorato perché tutto è più difficile. Io tutto questo, però, sono pronta ad affrontarlo perché credo che Catania una possibilità di riscatto se la meriti, e che questo riscatto debba partire proprio da noi giovani catanesi.
Bisogna formare le coscienze, informare: perché solo chi è consapevole può partecipare attivamente al riscatto della città. Bisogna cominciare fin dall’asilo a trasmettere ai bambini la cultura delle legalità, insegnando loro fin da piccoli che nessuno può comandare su qualcun altro, che non si deve avere paura di chi usa la violenza e le minacce per imporsi sugli altri, e che non è vero che chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni. Bisogna dare più spazio e più credito alle associazioni di cittadini come AddioPizzo, CittàInsieme, guidate da chi lavora tra mille difficoltà per diffondere i principi di legalità e giustizia. Bisogna che i genitori inculchino nella mente dei figli il concetto del rispetto, degli altri, di se stessi e delle cose che ci circondano. Bisogna investire seriamente le energie sulla formazione dei giovani, sulla cultura, sull’università e destinare più risorse di quelle quasi inesistenti che si investono attualmente per garantire ai giovani la possibilità di un futuro nella loro città. Bisogna credere nei giovani affinché i giovani possano credere in se stessi e non scappare via.
Io non voglio andare via, io voglio restare. Non voglio scappare via lontano solo perché è la strada più facile. E a chi mi dice che è inutile sperare, perché tanto io qui di possibilità non ne avrei neanche mezza, io rispondo che non si può dire ‘mi arrendo’ se prima non hai provato e riprovato, se non ti sei guardato intorno, se non hai reagito, se non sei caduto e non ti sei rialzato.
A questo sogno, se ne intrecciano altri. Studio per lavorare nella comunicazione e vorrei fare la giornalista. Voler lavorare nella stampa a Catania significa cercare un’oasi nel deserto e probabilmente non ci riuscirò. Ma ci sto provando. Ho già cominciato a provarci quando due anni fa ho messo per la prima volta piede nella redazione di Step1. Qui ho conosciuto ragazzi catanesi come me, con i miei stessi sogni e progetti, e con una determinazione tale da farmi venire la pelle d’oca solo a sentirli parlare. Ho incontrato persone che in questa città e nei suoi giovani ci credono e spendono il proprio tempo per insegnarci un mestiere, insieme all’importanza della verità e della libertà e a quella di non arrendersi mai. Qui ho imparato che basta volerlo per fare qualcosa di buono per Catania e che l’informazione libera si può fare se ci credi veramente. Che i sacrifici portano buoni frutti e che non sono i soldi a muovere gli ideali e a renderli pragmatici, ma è la passione. Qui ho imparato a conoscere Catania e a raccontare le sue storie e le storie dei suoi figli. Ho visto il coraggio di chi è morto per lei, di chi per lei vive sotto scorta, di chi non ha paura e nella libertà ci crede ancora. E vedo la speranza in chi, nonostante la pressione del racket, sceglie di aprire un’attività commerciale a Catania, in chi denuncia l’estorsione, in chi vive e lavora onestamente e non si fa contagiare dalla merda della criminalità, in chi qui vede ancora uno spiraglio di luce.
Mi rendo conto che non è facile per niente. Che basta guardarsi intorno, aprire un giornale, accendere la radio, camminare per strada e vedere tutto lo schifo che quotidianamente accade in questa città per farti venire da vomitare, mille dubbi in testa e la paura di non farcela a non sapere che cosa ti aspetta. Sono tante le cose che ti fanno pensare che qui di buono non ci sia nulla, che sia meglio andare via e pensare al tuo futuro, che il cancro nero abbia divorato ogni cosa, comprese le coscienze della gente. Ma in quell’ auletta piccola e disordinata del Monastero dei Benedettini ho imparato che se ami qualcosa devi lottare per difenderla. E ho imparato, nonostante tutto, ad essere orgogliosa di essere catanese.
Qualsiasi cosa mi riserverà il futuro, ho scelto di restare per provare a fare qualcosa di buono nella mia città e cominciare in prima persona a rispettarla. Per tentare di dimostrare a tutti che Catania non è morta, e che i suoi figli onesti possono fare tanto per farla emergere dal degrado.
Perla Maria Gubernale ha 22 anni ed è iscritta al corso di Laurea in scienze per la comunicazione internazionale della Facoltà di Lingue e letterature straniere di Catania. Fa parte della redazione di Step1 dal 2008.
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